Coi decreti legislativi approvati dal Consiglio dei ministri la vigilia di Natale può dirsi che la ri-progettazione del diritto del lavoro sta entrando nella fase operativa. Secondo Matteo Renzi, è stata innescata “una rivoluzione copernicana”. L’innesco consiste nello scambio tra l’abbassamento della tutela in caso di licenziamento illegittimo e l’attività assistenziale svolta a favore del licenziato da un’agenzia (anche privata) per il lavoro istituzionalmente accreditata che, in virtù del “contratto di ricollocazione” che sarà possibile stipulare grazie alla disponibilità di risorse pubbliche, si obbliga a trovargli una nuova occupazione dietro un corrispettivo incassabile “soltanto a risultato ottenuto”.
L’espediente è ricco meno di ingegnosità che di criticità sia da un punto di vista empirico, perché nel nostro paese la carenza di politiche attive del lavoro è una costante storica, sia dal punto di vista giuridico. Infatti, qualunque giurista appena dotato di buon senso è imbarazzato dagli interrogativi che la novità suscita. Sono numerosi.
Il primo attiene alla ratio della previsione di stanziamenti pubblici per attutire (alcuni dei) danni provocati da illeciti civili. E’ un’indulgenza paradossale: lo Stato sovvenziona il complesso delle misure di contenimento di danni derivanti da comportamenti di cui lo stesso Stato, attraverso i suoi giudici, ha accertato l’illiceità. E’ possibile spiegarselo soltanto così: secondo il legislatore, quello di licenziare non è un potere da limitare. Tutt’al contrario, è un diritto da proteggere. Sempre. Per questo, lo Stato ne facilita l’esercizio a tal segno da non esitare a finanziarne perfino l’abuso.
Il secondo interrogativo attiene alla vastità della platea dei potenziali interessati: sono soltanto gli assunti, e successivamente licenziati, col contratto introdotto dal decreto pre-natalizio o anche coloro che senza colpa hanno perso il lavoro in epoca anteriore e non ne hanno ancora trovato un altro? Il legislatore tace. Se il silenzio valesse assenso, bisognerebbe con ogni probabilità rivedere l’entità delle risorse finanziarie attualmente stanziate – modeste, comunque. In caso contrario, si creerebbe una discriminazione di trattamento nel periodo post-occupazionale in palese violazione del principio costituzionale d’eguaglianza.
Ad ogni modo, una discriminazione si produce immediatamente tra gli stessi assunti con contratto a tempo indeterminato c.d. “a tutele crescenti” in relazione all’anzianità di servizio. Quanti di loro accetteranno l’offerta del datore di lavoro, incentivata dallo stesso decreto, di astenersi dall’impugnare in sede giudiziaria il licenziamento, o di rinunciarvi qualora l’avessero già impugnato, non hanno il diritto a ricevere il voucher. Infatti, quest’ultimo spetta al lavoratore licenziato “illegittimamente” e soltanto il giudice può stabilire che il licenziamento è illegittimo.
Terzo interrogativo. Per attivare la struttura specializzata nella ricerca di nuova occupazione, l’interessato deve “presentare il voucher (…) rappresentativo della dote di ricollocazione” che ha precedentemente ricevuto dal Centro per l’impiego territorialmente competente. Il legislatore ha voluto chiamare leziosamente “dote” un peculium che altro non è se non l’equivalente del costo sostenuto dallo Stato per ricollocare chi ha perso il lavoro in seguito ad una illegale estromissione dall’azienda cui apparteneva. I criteri di computo il legislatore non li esplicita e l’assegnatario della “dote” può soltanto accettare il voucher. Che sarà avaro o generoso. Dipende, perché “l’ammontare è proporzionato in relazione al profilo professionale di occupabilità” del soggetto – ossia, in relazione alle probabilità di re-impiego.
Tuttavia, è ragionevole supporre che, per praticità, la consistenza pecuniaria delle “doti” sarà differenziata per classi omogenee. E’ dato congetturare infatti che squadre di esperti costruiranno più o meno arbitrarie scale di valori monetari variabili nel tempo e nello spazio che rispecchieranno la gerarchia di status professionali prefigurata dalle preferenze dei mercati. Pertanto, i soggetti in possesso delle professionalità più richieste avranno una “dote” meno sostanziosa perché più alta è la probabilità di trovare una nuova occupazione ed è vera la reciproca. Viste le dimensioni della disoccupazione e le ristrettezze di bilancio, però, è facile prevedere che le imprecazioni si sprecheranno.
Infine, bisogna interrogarsi sull’effettività sia del “diritto del lavoratore a sottoscrivere il contratto di ricollocazione” con l’agenzia sia del suo “diritto ad una assistenza appropriata”. Non basta asserire che l’agenzia ha l’obbligo legale a contrarre. Dopotutto, si è in presenza di un operatore economico che agisce per fare profitto d’impresa. Pertanto, tenuto conto del principio di corrispettività che governa i contratti di scambio, è realistico che la controprestazione sia proporzionata al voucher e, poiché è presumibile che la consistenza media delle “doti” sarà mediamente esigua, l’assistenza prestata sarà presumibilmente mediocre.
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La contro riforma del lavoro. Renzi va avanti. I dissensi si ampliano.
Ultimo aggiornamento Lunedì 19 Gennaio 2015 15:45 Scritto da Sandro Lunedì 19 Gennaio 2015 15:40
La rivoluzione del voucher
Operaismo di ieri e di oggi. di Sergio Bologna
Ultimo aggiornamento Venerdì 16 Gennaio 2015 12:15 Scritto da Sandro Venerdì 16 Gennaio 2015 12:13
Precisazioni sull’operaismo di ieri e di oggi
Intervista a Sergio Bologna
Nel Suo articolo “Come il patrimonio teorico ecc.” Lei non parla di Toni Negri e del contributo da lui portato all’analisi della società postfordista. Una dimenticanza o cosa?
È vero, non ne parlo. La ragione a me pare assai chiara, spero di riuscire a spiegarla. Negri è uno dei fondatori dell’operaismo ma sin dai tempi di “Classe Operaia” il suo lavoro teorico ha avuto una dimensione, un’ampiezza, che travalicava i confini dell’operaismo. Se poi teniamo conto di tutta la sua produzione politico-filosofica dalla metà degli Anni ’70 ad oggi è evidente che essa supera largamente per ricchezza e complessità il terreno occupato dall’operaismo. Non so se riusciamo a parlare di un “negrismo”, certamente possiamo parlare di un sistema di pensiero di Antonio Negri, che in parte arricchisce l’operaismo in parte se ne allontana, perché segue un percorso solitario, un progetto che è soltanto suo. Sono due sistemi di pensiero differenti, incrociati per un certo verso ma totalmente indipendenti. La stessa cosa si può dire per la produzione teorica di altri compagni, Christian Marazzi, per esempio, o Paolo Virno. Mi viene da dire che sia loro che Negri non hanno avuto bisogno dell’operaismo per produrre pensiero, mentre, per quanto riguarda me, l’operaismo rappresenta un punto di riferimento indispensabile. Starei per dire che per loro l’operaismo è stata un’esperienza umana fondamentale ma dal punto di vista dello stimolo del pensiero ha avuto un peso minore, se non addirittura secondario, rispetto ad altri stimoli. È vero.
Sin dalla metà degli Anni ’70 Toni Negri ha ragionato come se la società fordista fosse un retaggio del passato ed è andato alla ricerca di un soggetto sociale o di una composizione sociale che potesse sostituire, sublimare e inglobare l’operaio massa. Ma lo ha fatto partendo dall’alto, non dal basso, dalla sua concezione dello stato, dal governo complessivo del capitale, con un approccio fortemente leninista. Il suo problema non è mai stato il comportamento operaio ma la distruzione dell’apparato di potere capitalistico, in lui la classe operaia non è un universo sfaccettato e pieno di contraddizioni ma un potenziale esercito compatto. Non è un caso che fu lui a scegliere il titolo “Operai e stato” per il primo volume della collana “Materiali marxisti”. Un titolo azzeccato, un titolo che è un programma, mentre il titolo del secondo volume “Crisi e organizzazione operaia” non corrisponde per niente ai contenuti, è un titolo sbagliato. Il percorso solitario che Toni Negri ha intrapreso sin dall’inizio dell’avventura operaista si è accentuato dopo il suo arresto e il protagonismo mediatico impostogli dai suoi persecutori. A quel punto il livello dello scontro è apparso troppo alto perché valesse la pena di ricorrere ancora all’armamentario operaista. La sua produzione teorica quindi si è allargata a dismisura, da Spinoza a Leopardi, fino a toccare i livelli di “Impero”, di “Moltitudine”, separandosi completamente dalla dimensione dell’operaismo, che è rimasto un “prodotto di nicchia” destinato a pochi amatori mentre la produzione di Toni Negri diventava un dispositivo globalizzato. Per me invece l’operaismo è qualcosa da cui non riesco a liberarmi, fa parte della mia natura ed è a misura delle mie modeste capacità intellettuali. Non ho ambizioni superiori, forse perché non ho mai osato pensare la rivoluzione comunista, la distruzione dello stato borghese mi è apparsa sempre una prospettiva così lontana da impedirmi di “pensarla”. Anzi, dirò di più, io non ho mai condiviso l’idea di tanti compagni di essere i “veri comunisti”, quelli che hanno raccolto la bandiera del comunismo lasciata cadere dai partiti riformisti e oggi neoliberali. La mia adesione completa, convinta, all’operaismo derivava dal fatto che pensavo di ritrovarmi in mezzo a persone che consideravano il comunismo un’esperienza storica conclusa e che dinanzi a noi si apriva una strada ignota, tutta da scoprire, che doveva portare alla liberazione dalle due dominazioni: quella capitalista e quella del cosiddetto “socialismo realizzato”. A mio avviso solo dopo il ’77 Toni Negri si allontana anche lui consapevolmente dalla tradizione comunista e affronta l’ignoto del postfordismo. Lo fa anche nel momento in cui si allontana dalla prospettiva leninista-potoppina e in cui prende le distanze dalla lotta armata (che, diciamolo, è stata la più eclatante versione moderna del leninismo). Io ho continuato a studiare il comunismo da storico e mi sono trovato a dover metterne in risalto meriti – per esempio nel saggio ”Nazismo e classe operaia” – che gli stessi partiti comunisti del dopoguerra avevano voluto dimenticare e seppellire.
Ma allora che significato ha avuto per Lei l’esperienza di “Potere Operaio”? Voi siete stati insieme non solo in “Classe Operaia” e ne “La classe” ma anche in “Potere Operaio”, anzi Lei ne è stato uno dei fondatori.
Non ho mai piacere di parlarne. Perché? Perché – sembrerà impossibile – quei 12/13 mesi passati in “Potere Operaio” non mi hanno lasciato dentro niente. Mi spiace dirlo, perché so quanto quell’esperienza ha significato per tanti compagni a cui sono ancora fortemente legato dal punto di vista umano e non solo. Fedeli a quella esperienza, hanno sopportato senza battere ciglio anni di galera e ancora oggi non riescono a distaccarsene, rimane l’esperienza fondamentale della loro vita. Io ho vissuto quei mesi in maniera schizofrenica, con la sensazione – continuamente ricacciata nel profondo dell’animo – che stessi tradendo quella diffidenza verso il leninismo che il mio spirito libertario considerava una componente essenziale della “nuova” militanza. Anche se in “Potere Operaio” ho trovato parti della mia vita, soprattutto dal lato affettivo, sia dal punto di vista intellettuale che dal punto di vista politico, il bilancio dell’esperienza in quella organizzazione per me è zero. Sicché quando si dice che me ne sono andato perché ero contrario all’uso della violenza non è vero, non è vero. Potevo essere contrario al modo in cui si pensava di esercitarla o ai personaggi su cui si pensava di poter contare (ho avuto facile ragione, ahimè). Ma la verità è che me ne sono andato perché “Potere Operaio” era la riproduzione di un modello bolscevico fuori tempo, analogo a quello di tutti i gruppi extraparlamentari, non aveva quella bella “diversità” che è propria dell’operaismo, anzi ne era la negazione. Ma forse sono io che non l’ho capito. Sta di fatto che solo quando me ne sono uscito ho ricominciato un certo lavoro teorico, ho ricominciato a respirare, a pensare politicamente, a rivivere dentro il movimento.
Quindi Lei è convinto di essere il “vero” interprete dell’operaismo? La versione “autentica” dell’operaismo sarebbe la Sua?
Siamo fuori strada, amico mio. Io racconto la mia esperienza, offro una testimonianza con lo stile ed i parametri del mio mestiere, quello dello storico. Ma se domani qualcuno mi dicesse che la mia versione è una deformazione della realtà, una leggenda metropolitana inventata dal mio egocentrismo, e che ben poco hanno a che fare i miei scritti con la “vera” tradizione operaista, non farei una piega. Il termine “operaismo” così come il termine “postfordismo” sono delle convenzioni, si possono accettare o rifiutare. Quello che conta, in politica, non è la storia del pensiero ma la storia del movimento reale. Possono dirmi che io con l’operaismo c’entro come i cavoli a merenda, affari loro, a me basta che quando parlo di operaio massa ci sia un riscontro effettivo, anzi, ci sia una potenza sociale che incute rispetto al potere costituito, e che quando parlo di lavoratore autonomo ci sia un effettivo movimento associativo, di autotutela, di resistenza, di mutualismo, dei freelance. “Ma pensano alla rivoluzione, questi freelance?” domanda Pierino. “Vàglielo a chiedere, ragazzo. Vài, vài, alzare il culo dalla sedia fa sempre bene”.
Il sindacato si fa imprenditore!. L'Accordo della Vergogna.
Ultimo aggiornamento Lunedì 12 Gennaio 2015 10:46 Scritto da Sandro Giovedì 08 Gennaio 2015 16:02
Una scomoda presenza nel Mondo del Lavoro.
Il sindacato si fa imprenditore!
Prima d’iniziare a fare delle considerazioni tecno/politico/sindacale, diamo un nostro giudizio di come viene interpretiamo e percepiamo l’accordo del “Testo Unico sulla Rappresentanza” del 10 gennaio 2014.
Possiamo scrivere che l’accordo non è un Decreto Legge ma una intesa, una “concertazione” tra più soggetti che ci vede oggi come ieri in netto contrasto.
Il testo firmato da Confindustria (associazione padronale) con cgil, cisl, uil (in rappresentanza dei lavoratori) ed altre associazioni sindacali accodatesi in seguito, come da risposta 10 aprile 2014, lasciarebbe poche speranze ad altri soggetti sindacali che si vedrebbero eliminati presupposti primari quali la sottoscrizione dei contratti, sia di secondo livello che dei CCNL, (un cedimento inutile) escludendo così quelle realtà raprresentative di minoranze per trarne indebiti vantaggi.
La misurazione o la certificazione della Rappresentatività nei luoghi di lavoro non sfugge al giudizio principe della limitazione della democrazione sostanziale nei luoghi di lavoro per il quale ci battiamo da anni!
Il tentativo di esclusione delle minoranze sindacali non può divenire realtà.
Le nuove regole del mercato del Lavoro chiedono a tutti noi una presenza capillare ed uno sforzo ulteriore per ribaltare il profilarsi di un attacco al salariato, alla disoccupazione e al precarito che le nuove regole del lavoro avranno come conseguenza:
1. condizioni i salariali al limite della povertà;
2. nuovi accupati con un diverso regime giuridico a loro difesa;
3. non occupati che non avranno possibilità accupazionali;
4. precariato in crescita crescente;
5. un sociale sotto attacco dalla casa alla sanità;
Queste sono le tutele crescenti pensate da una classe dirigente impregnata da corrotti e collusi.
Il testo unico sulla Rappresentanza è dentro il progetto del Jobs Act .
I quattro capisaldi dell’accordo sono la misura della contrazione rappresentativa delle minoranze a favore dei soliti sindacati, mai realmente contrapposti allo strapotere padronale, e dei vari governi che si sono succeduti nel tempo.
Parte Prima.
· Misura e certificazione della Rappresentanza, controllori controllati si scambiano i ruoli;
· Misura del contributo associativo;
· Secondo l’intesa dovrebbero esser valide solo le deleghe d’adesione degli aderenti all’accordo, già previsto nei CCNL, ma cosa già smentita da giusrisprudenza costante;
· L’INPS elaborerà i dati associativi aggregandoli ai CCNL delle singole categorie mettendo così un ente pubblico al servizio del privato;
· I dati aggregati saranno trasmessi al CNEL e ritrasmessi alla Commissione elettorale dei Garanti;
· Il comitato dei garanti ad elezione rsu avvenuta li ritrasmetterà al CNEL;
· I dati associativi comunicati al CNEL determineranno la soglia del 5% degli aventi dirito alle RSU;
· Le RSU saranno riconosciute al raggiungimento del 50% + 1 degli aventi diritto. Nulla di nuovo.
Parte Seconda.
Regolamento in azienda.
Le parti contraenti determineranno una sola forma di rappresentanza:
a) Le rsu dovranno garantire l’invarianza dei costi aziendali;
b) Le rsa in scadenza potranno essere costituite dalle rsu per decisione delle O.S. maggioritarie con totale dipendenza dalle O.S. come oggi;
c) Il tutto trova applicazione nel’art. 2112 del Cod. Civ., le rsu resteranno in carica fino al rinnovo della nuova rsu. (Trasferimento d’azienda. Il rapporto di lavoro contunua con l’aquirente rimando in essere le condizioni precedenti, nel caso in esame anche le rsu);
d) Avranno diritto i soggetti firmatari dei precedenti patti: del 28 giugno 2011, del 31 maggio 2013 e del presente accordo. Tanti paletti e tante limitazioni per blindare un patto tra galantuomini;
e) Una garanzia tripartita. Il numero minimo delle rsu nelle unità pruduttive sarà di TRE per duecento dipendenti; un bel passo indietro rispetto al passato che garantisce una maggiore sicurezza per i contraenti del patto;
f) Sono salvi i diritti, come riportato nella legge 300/1970, art. 20, con una variabile:
3 delle dieci ore annue di assemblee sindacali saranno esigibili dalle O.S. e 7 destinate ai lavoratrori mentre in passato tutte e 10 le ore erano ad uso dei lavoratori;
g) La rsu non può cambiare casacca, pena la decadenza. Sono più avanti del parlamento;
h) Potranno partecipare alle RSU, “solo le organizzazioni che accettino espressamente, formalmente ed integralmente i contenuti del presente accordo, dell’acordo del 28 giugno 2011 e del protocollo del 31 maggio 2013”.
Il varo di una commissione d’arbitrato costituita dagli stessi firmatari, mi pare anche singolare, come quella di un fondo cassa di apposita costituzione.
Il tutto per riconfermare che:
Padroni e Sindacati confederali non chiedono null’altro che soltando una limitazione della democrazia nei lughi di lavoro, un ambito protetto in cui il diritto alla tutela è un fatto meramente discrezionale deciso dai soggetti firmatari di questo accordo come dei precedenti.
Quanto qui descritto sintenticamente non poteva essere un incidente di percorso ma altresì propedeutico a cio che il governo Renzi si accingeva a varare allo scadere dell’anno 2014 con il Jobs Act seguito dalle tiepide risposte dai firmatari dell’accordo, quello della vergogna.
Milano 08.01.2015
La segreteria
USI – C.T. & S. (MI)
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