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Il nuovo sistema pensionistico. Legge 23 agosto 2004, n. 243,

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Il nuovo sistema pensionistico italiano è un sistema contributivo basato su conti figurativi. I contributi versati maturano rendimenti legati alla crescita del prodotto interno lordo.

Al momento del pensionamento il capitale figurativo accumulato da ciascun lavoratore viene convertito in una rendita il cui importo annuo tiene conto delle aspettative di vita alla pensione. Il nuovo sistema si applica pienamente a coloro che hanno iniziato a lavorare dal 1996 in poi.

Requisiti
Come risultato della riforma del 2004 (legge 23 agosto 2004, n. 243, n.d.r.), dal 2008 l’età della pensione sarà di 60 anni per le donne e di 65 per gli uomini. Il pensionamento anticipato sarà ancora possibile, a determinate condizioni.

Calcolo delle prestazioni
Nel sistema di calcolo figurativo ai lavoratori dipendenti viene ‘accreditata’ una somma pari al 33% dello stipendio (una percentuale lievemente superiore alle quote di contributi pagati realmente dai lavoratori e dai datori di lavoro). Questi contributi vengono rivalutati in linea con il valore medio, calcolato su un periodo di cinque anni, della crescita del PIL, fino all’anno del pensionamento. Il valore di base, adottato in genere per tutti i paesi, è una crescita annua dei salari reali del 2%. Dato che la forza lavoro del paese è prevista in calo, un assunto coerente è rappresentato da una crescita reale del PIL dell’1,6%.

Il capitale figurativo risultante viene moltiplicato per un coefficiente di trasformazione al momento della pensione. Il coefficiente varia a seconda dell’età anagrafica del lavoratore che si ritira. I valori dovrebbero essere rivisti ogni dieci anni, sulla base dei dati aggiornati sui tassi di mortalità a età differenti. I calcoli sono basati sulle previsioni demografiche elaborate
dall’ISTAT.

1 L’Italia ha espresso seri dubbi circa l’adeguatezza dei dati usati nel rapporto, e di conseguenza sulla comparabilità dei risultati. In particolare, i presupposti di base circa l’età di ingresso nel mondo del lavoro e sulla durata della vita lavorativa (rispettivamente 20 e 45 anni) sono diversi da quelli su cui si è trovato un accordo nel corso di un’analoga operazione svolta in ambito europeo, e differisce altresì dalle correnti regole del mercato del lavoro in Italia. L’Italia ritiene che le interpretazioni basate su questi dati risultino fuorvianti.
Le parti sociali e il Parlamento vengono consultati su questo punto, ma la decisione finale è sempre una decisione governativa. Il calcolo delle prestazioni in questo sistema assume un tasso di interesse reale dell’1,5%.

Coefficiente di trasformazione per età
ETÀ

57

58

59

60

61

62

63

64

65+%
COEFFICIENTE DI TRASFORMAZIONE
4,014
4,113
4,217
4,328
4,446
4,572
4,705
4,847
4,999
Per i lavoratori dipendenti il salario minimo per il versamento di contributi è di 164,87 euro a settimana (corrispondente al 39% del reddito medio da lavoro). Il reddito massimo per ottenere prestazioni pensionistiche è di 82.400 euro annui (oltre il 370% del reddito medio).

L’indicizzazione delle pensioni in pagamento è un calcolo complesso, poiché alle pensioni più basse viene riservato un trattamento più generoso rispetto alle pensioni alte.
Le prestazioni corrispondenti alla pensione minima, e fino a tre volte la pensione minima, vengono rivalutate con un indice del 100% dell’inflazione dei prezzi. Il valore-soglia considerato arriva a 1.206 euro al mese per l’anno 2003 (valore utilizzato per rivalutare le pensioni nel 2004) e a 1.236 euro al mese per il 2004 (valore utilizzato per rivalutare le pensioni nel 2005). Si tratta, approssimativamente, dei 2/3 di un salario medio.
Per le prestazioni di valore più alto, fino a cinque volte l’ammontare di una pensione minima, le somme in pagamento sono rivalutate nella misura del 90% dell’inflazione dei prezzi. Sopra questa soglia la percentuale cade al 75% dei prezzi. Quando gli importi delle prestazioni sono alti questi valori di rivalutazione si applicano separatamente e alle progressive ‘fasce’ di reddito.

Assistenza sociale

La pensione minima viene abolita per coloro che sono assicurati esclusivamente col nuovo sistema, cioè coloro che hanno iniziato a lavorare dal 1996 in poi. Tuttavia i pensionati che hanno redditi al disotto della soglia dell’assistenza pubblica possono chiedere una prestazione subordinata all’accertamento del reddito, a partire dai 65 anni. Nel 2004 il valore complessivo dell’assegno sociale è stato di 4.952 euro. La prestazione per gli ultrasettantenni è stata più alta: 6.967 euro. Queste somme annue sono equivalenti rispettivamente al 22% e
al 31% di uno stipendio medio.

Prepensionamenti
La riforma del 2004 ha fissato l’età della pensione in 65 anni per gli uomini e in 60 per le donne a partire dal 2008. Gli uomini che abbiano versato almeno 35 anni di contributi potranno andare in pensione al compimento dei 60 anni (nel 2008). Successivamente l’età anagrafica minima per la pensione crescerà a 61 anni dal 2010 e a 62 dal 2014. Dal 2008 ci sarà un ulteriore periodo di nove mesi di attesa per il pensionamento anticipato rispetto alla maturazione dell’età minima, per coloro che hanno meno di 40 anni di contributi, il che eleva di un periodo corrispondente l’età indicata. Le donne, dal canto loro, potranno conservare fino al 2015 il diritto ad andare in pensione a 57 anni, ma dal 2016 l’età minima diventerà di 60 anni.
In ogni caso rimarrà possibile andare in pensione a qualunque età se si sono versati almeno 40 anni di contributi.
Prima dei 65 anni la pensione si ottiene a condizione che risulti superiore del 20% all'importo dell'assegno sociale.

Posticipo della pensione
Le donne hanno diritto a restare al lavoro oltre il limite minimo di età per esse previsto, fino al raggiungimento dell’età fissata per il pensionamento degli uomini (65 anni). Il pensionamento non è obbligatorio al raggiungimento del sessantacinquesimo anno, ma i datori di lavoro possono comunque mandare in congedo i dipendenti che abbiano raggiunto tale età.
Nell’ambito dello schema contributivo figurativo, non è possibile cumulare redditi da lavoro e pensione fino a 63 anni di età. Oltre è consentito, pena la trattenuta di una quota pari al 50% del reddito eccedente la pensione minima, fino a che la tassazione complessiva sia pari all’intera pensione.
E’ possibile posporre la domanda di prestazione pensionistica oltre il 65° anno, anche se il coefficiente di trasformazione, in questi casi, resta invariato, e le prestazioni crescono solamente per effetto dell’accumulo di nuovi contributi che vengono capitalizzati per una o più ulteriori annualità.

Scenario pre-riforma
I nuovi entrati nel mondo del lavoro a partire dal 1996 sono soggetti esclusivamente al sistema pensionistico risultante dalla riforma. Coloro che avevano già maturato 18 anni di contribuzione al momento della riforma ricadono invece completamente nel vecchio sistema. I lavoratori che non rientrano in nessuna delle due categorie si vedono applicare un sistema misto, per il quale i diritti maturati fino alla fine del 1995 continuano ad essere soggetti al vecchio regime, mentre a partire dal 1996 viene applicato il sistema riformato.
Il vecchio regime era un sistema a prestazione definita, con versamenti contributivi variabili in percentuale del reddito annuo, e quindi diversi per ogni anno di lavoro. Per gli anni successivi al 1993 è stata applicata un tabella alle varie fasce di reddito. Quella che segue è la tabella applicata per l’anno 2004: limite inferiore di reddito in € 0
37.884
50.386
62.887
71.980 %

Tasso di incremento
2,0
1,6
1,35
1,10
0,9

Nel vecchio sistema non c’era limite al reddito massimo pensionabile.
Il limite di età, in questo sistema, è cresciuto gradualmente dai 60 anni per gli uomini, 55 per le donne del 1992, ai 65 anni per gli uomini e 60 per le donne dal 2000 in poi.
Per ricevere la pensione erano richiesti 20 anni di contribuzione, ma c’erano condizioni che rendevano possibile ricevere la pensione anche prima di questo limite. Dal 1992 questa situazione ha subito un progressivo irrigidimento.
Negli anni 2001-2003 si poteva andare in pensione a qualunque età, con 37 anni di contributi; nel 2004/2005 con 38 anni di contributi, nel 2006/2007 si può andare in pensione a qualunque età con 39 anni di contributi, e dal 2008 con 40 anni di contributi.
Con 35 anni di contributi si poteva andare in pensione nel 2001 a 56 anni di età, aumentati a 57 dal 2002, e nel futuro sono previsti altri innalzamenti dei limiti di età.
La pensione minima viene fissata in una somma e di 50 euro più alta dell’assegno sociale per i pensionati di 60-64 anni, e in una somma di 110 euro più alta dell’assegno sociale per i pensionati di 65-69 anni. Dopo i 70 anni la pensione minima è uguale all’assegno sociale.
Sotto il vecchio regime era possibile cumulare reddito da lavoro e pensione dopo i 58 anni, a condizione di aver versato 37 anni di contributi.

HIGHLIGHTS – ITALY
Pensions at a
• In Italia la spesa pensionistica pubblica in rapporto al reddito nazionale è maggiore che negli altri 30 paesi OCSE ed è cresciuta, dal 1990 in poi, a ritmi molto più sostenuti.
• Le riforme pensionistiche introdotte negli ultimi anni hanno ridotto significativamente le prestazioni pensionistiche future.
• La transizione al nuovo sistema tuttavia è molto lenta e potrebbe essere ulteriormente ostacolata rispetto ai tempi previsti originariamente.
Nel 2003 l’Italia ha speso per le pensioni pubbliche una percentuale di PIL pari a 13,9%, contro una media del 7,7% nel gruppo dei paesi membri dell’OCSE. Inoltre l’Italia è tra le quattro nazioni che hanno avuto il maggior incremento della spesa pensionistica tra il 1990 e il 2003 (prima dell’Italia ci sono solo Giappone, Polonia e Portogallo). A differenza dell’Italia, però, queste nazioni sono partite da una posizione molto più arretrata, con una spesa pensionistica sul PIL intorno al 6%, mentre l’Italia partiva già da una percentuale del 10%.
2 Questo paragrafo [solo in inglese nell’originale] non compare nel testo del rapporto ‘Pensions at a
Glance 2007’, ma è pubblicato sul sito internet dell’Ocse all’indirizzo:
(www.oecd.org/els/social/ageing/PAG - Country specific highlights)

Come risultato di ciò, l’Italia presenta i tassi di contribuzione previdenziale per le pensioni più alti di tutti i paesi OCSE. I contributi versati complessivamente da lavoratori dipendenti e datori di lavoro raggiungono la percentuale del 33% sul reddito personale, a fronte di una media OCSE del 20%.
Le riforme del sistema pensionistico intraprese dall’Italia nel decennio passato ridurranno sensibilmente le prestazioni pensionistiche future. Il tasso di sostituzione (reddito derivante dalla pensione rapportato al reddito da lavoro nel periodo precedente) si ridurrà dal 90% del periodo pre-riforma a poco più del 60% quando il nuovo regime sarà effettivo.
Per i lavoratori a medio reddito questo valore del tasso di sostituzione sarà lievemente superiore a quello previsto in media nei paesi OCSE, pari al 54% circa. Ma il legame più stretto tra prestazioni pensionistiche e contributi versati durante la vita lavorativa, introdotto dal nuovo regime, comporterà per i percettori di redditi bassi (intorno alla metà del reddito medio) una riduzione del tasso di sostituzione al disotto della media OCSE, mentre i percettori di redditi alti si vedranno applicato un tasso di sostituzione sensibilmente più vantaggioso rispetto alla media OCSE.

ITALIA Prima della riforma
90,0
90,0
90,0
Dopo la riforma
61,0
61,0
61,0
Nota: questi dati possono differire da quelli pubblicati in "OECD-Pensions at a Glance" per le ragioni illustrate nella "nota per i redattori" sottostante. Laddove il tasso di sostituzione differisce fra uomini e donne, i dati esposti riguardano gli uomini.

I futuri pensionati italiani subiranno forti riduzioni delle prestazioni pensionistiche, tra le maggiori dei paesi dell’Ocse. Solo Messico, Portogallo e Turchia hanno in programma tagli alle prestazioni altrettanto pesanti. La riforma è stata necessaria per ricondurre l’aspetto finanziario del sistema pensionistico su un piano di maggiore sostenibilità; tuttavia la riforma viene attuata in modo molto lento, così che i benefici finanziari sono procrastinati. Inoltre un aggiustamento delle prestazioni che tenga conto delle maggiori aspettative di vita non ha avuto luogo al momento opportuno. Vi sono state, infine, proposte recenti miranti a rimandare l’applicazione delle misure più severe riguardanti i pensionamenti anticipati.
Nota per i redattori
La nota a piè pagina italiana
I dati nella tabella 1 si basano sul presupposto, preferito dal Governo italiano, di un accesso all'età di 25 anni e una uscita all'età di 65 anni (prescindendo dalla normale età di pensionamento nazionale).

ALLEGATI
DOCUMENTI DI FONTE ITALIANA

A. Brugiavini, T. Boeri, “TANTO RUMORE PER NULLA?” (8 giugno 2007)
Il testo è riprodotto dal sito intenet www.lavoce.info
Stime Ocse e criteri italiani
Il governo italiano, unico fra i trenta paesi dell’OCSE, ha voluto apporre una nota di censura in calce alla prima pagina del rapporto dell’organizzazione sulle pensioni negli Stati membri. Motivo, la contestazione della metodologia usata dall’Organizzazione per descrivere i tassi di sostituzione futuri.
Le statistiche dell’OCSE si basano su ipotesi che devono, per ragioni di comparabilità, essere applicate a tutti i paesi. Ad esempio, le statistiche sui tassi di occupazione (quelle prese a riferimento negli obiettivi di Lisbona) definiscono la popolazione in età lavorativa, il denominatore del tasso di occupazione, come la popolazione fra 15 e 64 anni. Non in tutti i paesi si inizia a lavorare così presto e si finisce così "tardi". Ma è una convenzione da tempo accettata da tutti. Per quanto lontana dalla realtà di alcuni paesi, è vicina a quella della media dei paesi Ocse e permette di fare comparazioni internazionali su grandezze omogenee. Bene armonizzare le ipotesi tra paesi anche per renderle meno manipolabili dai governi nazionali: se un governo decide di permettere a tutti di andare in pensione a 50 anni, non deve poter abbassare il limite superiore della popolazione in età lavorativa di 15 anni per mostrarsi virtuoso nel raggiungimento degli obiettivi di Lisbona.
La ragione per cui l’Italia non ha firmato il rapporto è tutta in una tabella, quella che stima i tassi di sostituzione futuri delle pensioni (il rapporto fra pensione e salario).
Questa tabella viene calcolata ipotizzando che un lavoratore entri nel mercato del lavoro a 20 anni e lavori fino al raggiungimento dell'età legale di pensionamento ai salari medi. In Italia, come nella maggioranza dei paesi OCSE, questo significa una carriera di 45 anni, da 20 a 65 anni. Troppo lunga la carriera ipotizzata, secondo i "tecnici" del ministero della Solidarietà sociale, che hanno chiesto all’OCSE di considerare una carriera di soli 40 anni e iniziata a 25 anni. L’OCSE ha rifatto le stime sotto queste ipotesi e le ha pubblicate sul rapporto, in aggiunta alla tabella originaria. Questo non è bastato al governo italiano, che, creando un pericoloso precedente, ha fatto aggiungere a pagina tre una nota in cui "esprime seri dubbi sull'adeguatezza dei dati e, dunque, sulla comparabilità dei risultati". Una volta delegittimato dal governo italiano, il rapporto è stato poi immediatamente bocciato dal segretario della Cgil che lo ha definito "strabico". Insomma, dietro all'obiezione "tecnica" si avverte il disagio nel vedere il sistema pensionistico italiano classificato come uno di quelli che offre trattamenti più alti (in rapporto al salario) tra i paesi OCSE.

TASSO DI SOSTITUZIONE LORDO PER REDDITO. CONFRONTO TRA I CRITERI DI CALCOLO

(La tabella consiste in una rielaborazione dei dati OCSE effettuata dagli esperti di www.lavoce.info e A. Brugiavini)

I calcoli secondo criteri italiani
Ma come sarebbe cambiato il rapporto se l'Ocse avesse seguito alla lettera le indicazione dei nostri "tecnici"? La tabella compara le stime di Pension at a Glance con quelle che si sarebbero ottenute ipotizzando per tutti i paesi una entrata sul mercato del lavoro a 25 anni. Come si vede, il tasso di sostituzione si abbassa per tutti i paesi (non potrebbe essere altrimenti: meno contributi portano a pensioni meno generose), ma non cambia affatto la posizione relativa dell’Italia.
Il tasso di sostituzione stimato per l'Italia dall’Ocse (67,9 per cento, vale a dire una pensione che rimpiazza circa due terzi del salario medio durante la vita lavorativa) è in linea con molte stime. All’atto della riforma Dini, il Bollettino economico della Banca d’Italia stimava il tasso di sostituzione per analoga carriera e profilo retributivo addirittura al 75 per cento. Anche i salari medi ipotizzati dall’Ocse (22mila euro lordi all'anno), sono coerenti con altre fonte statistiche. Infine, è utile ricordare che si tratta di tassi lordi: quelli al netto delle tasse, che servono a valutareil potere d’acquisto delle pensioni rispetto ai salari, sono di circa 10-15 punti più alti.
Insomma non si voleva far apparire il nostro sistema come troppo generoso. Ma se i"tecnici" avessero letto con cura le tabelle dell'Ocse, avrebbero potuto notare che il nostro sistema pensionistico non è affatto generoso: è solo di una insostenibile pesantezza perché versando il 33 per cento dei salari porta a un tasso di rimpiazzo inferiore a quello di paesi, come la Svezia, in cui il contribuente versa meno del 19 proprio del proprio salario. Inoltre le stime dell'Ocse dopotutto dimostrano che, anche con 45 anni di contributi, non si riesce a ottenere più di due terzi del salario.
Per chi ha carriere discontinue questo traguardo è un miraggio. Ma il problema è più nel mercato del lavoro che nel sistema pensionistico.

TFR
(Fonte: Ministero del lavoro e della previdenza sociale – Commissione di vigilanza sui fondi pensione)
Dall’inizio degli anni Novanta il sistema pensionistico italiano è stato oggetto di un articolato processo di riforma volto a contenere la spesa pensionistica in modo da garantirne la sostenibilità finanziaria.
Tale riforma rappresenta un’importante evoluzione nella storia della previdenza italiana. Essa è infatti incentrata sullo sviluppo di un sistema pensionistico basato su due “pilastri” : il primo è rappresentato dalla previdenza obbligatoria (erogata da Inps, Inpdap, Casse professionali ecc.) che assicura la pensione di base; il secondo è rappresentato dalla previdenza complementare che è finalizzata a erogare una pensione aggiuntiva a quella di base.
Le prestazioni pensionistiche che saranno pagate in particolare ai lavoratori entrati nel mondo del lavoro dopo il 1° gennaio 1996 o con pochi anni di servizio a quella data, saranno inferiori di quelle pagate nel passato. Per garantire a tutti i lavoratori la possibilità di mantenere un adeguato tenore di vita anche dopo il pensionamento, la riforma ha previsto la possibilità di aderire alle forme pensionistiche complementari.
L’adesione alla previdenza complementare, pur non essendo obbligatoria, è quindi un‘interessante opportunità per garantire ai pensionati di domani un reddito di importo adeguato.
Una delle novità più importanti della Riforma riguarda il Trattamento di Fine Rapporto (TFR) che può essere utilizzato come fonte di finanziamento delle forme pensionistiche complementari.
Cosa è il TFR?
Il trattamento di fine rapporto (anche conosciuto come “liquidazione”) è la somma che viene corrisposta dal datore di lavoro al lavoratore al termine del rapporto di lavoro dipendente.
Il TFR si determina accantonando per ciascun anno di lavoro una quota pari al 6,91 % della retribuzione lorda. La retribuzione utile per il calcolo del TFR comprende tutte le voci retributive corrisposte in dipendenza del rapporto di lavoro, salvo diversa previsione dei contratti collettivi. Gli importi accantonati sono rivalutati, al 31 dicembre di ogni anno, con l'applicazione di un tasso costituito dall'1,5% in misura fissa e dal 75% dell'aumento dell'indice dei prezzi al consumo Istat. Al momento della liquidazione, il TFR è tassato, in linea generale, con l’applicazione dell’aliquota IRPEF media del lavoratore nell’anno in cui è percepito. Per la parte di TFR che si riferisce agli anni di lavoro decorrenti dal 1° gennaio 2001, l’amministrazione finanziaria provvede poi a riliquidare l’imposta, applicando l’aliquota media di tassazione del lavoratore degli ultimi 5 anni.

Lavoratori interessati
Sono interessati alla riforma della previdenza complementare attuata con il d. lgs. n.252/2005 ed entrata in vigore dal 1° gennaio 2007 tutti i lavoratori autonomi e i lavoratori dipendenti, ad esclusione dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni sotto elencate. In base alla disciplina del d. lgs. n. 252/2005 o del d. lgs. n.124/1993, possono aderire alle forme pensionistiche complementari le seguenti tipologie di lavoratori:
1. i lavoratori dipendenti sia del settore privato che del settore pubblico;
2. i lavoratori assunti in base alle tipologie contrattuali previste dal d. lgs. n.276/03 (legge Biagi): soggetti con contratto di lavoro in somministrazione, con contratto di lavoro intermittente, con contratto di lavoro ripartito, con contratto di lavoro a tempo parziale, con contratto di apprendistato, con contratto di inserimento, con contratto di lavoro a progetto, con contratto di lavoro occasionale;
3. i lavoratori autonomi;
4. i liberi professionisti;
5. i soci lavoratori di cooperative;
6. i soggetti che svolgono lavori di cura non retribuiti derivanti da responsabilità familiari nonché i soggetti che svolgono, senza vincolo di subordinazione, lavori non retribuiti in relazione a responsabilità familiari e che non prestano attività lavorativa autonoma o alle dipendenze di terzi e non sono titolari di pensione diretta.
Naturalmente, la specifica disciplina sul conferimento del Trattamento di fine rapporto (TFR) alle forme pensionistiche complementari trova applicazione solo con riferimento ai lavoratori dipendenti.
Alle forme pensionistiche complementari di carattere individuale (fondi aperti e PIP) possono aderire anche soggetti diversi da quelli sopra elencati, come ad esempio i soggetti che non hanno reddito da lavoro.
Possono inoltre iscriversi alle forme pensionistiche complementari anche i c.d. "soggetti fiscalmente a carico" cioè quei soggetti rispetto ai quali il percettore del reddito fruisce delle deduzioni o delle detrazioni prevista dalla normativa fiscale vigente. Affinché i soggetti fiscalmente a carico possano effettivamente iscriversi ad un fondo pensione di natura negoziale è necessario che tale facoltà sia espressamente prevista dallo statuto del fondo pensione.
Lavoratori non interessati alla Riforma
Sono, al momento, esclusi dal campo di applicazione della riforma operata con il d. lgs. n.252/2005 i dipendenti delle seguenti Pubbliche Amministrazioni (ai quali continua ad applicarsi la disciplina del d. lgs. n.124/1993):
• amministrazioni dello Stato, compresi gli istituti e le scuole di ogni ordine e grado e le istituzioni educative;
• aziende e amministrazioni dello Stato ad ordinamento autonomo
• regioni, province, comuni, comunità montane e loro consorzi e associazioni;
• istituzioni universitarie (università statali e istituto universitario di scienze motorie/ex Isef)
• istituti autonomi case popolari;
• camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura e loro associazioni;
tutti gli enti pubblici non economici nazionali (ad es. Inps, Inpdap, Ipsema), regionali e locali;
• amministrazioni, aziende ed enti del servizio sanitario nazionale;
• Aran (agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni);
• agenzie fiscali.

BANCA D’ITALIA
(Servizi al pubblico: http://www.bancaditalia.it/servizi_pubbl/conoscere/previdenza)
LA PENSIONE: I TRE PILASTRI DELLA PREVIDENZA
La “previdenza sociale” costituisce uno dei principali obiettivi degli Stati moderni e consiste nella tutela dei lavoratori che hanno smesso di lavorare per motivi di età o sono temporaneamente o permanentemente incapaci di farlo (per malattie, infortuni, maternità). Al ricorrere di queste condizioni i lavoratori hanno diritto a ricevere una rendita, cioè una somma di denaro mensile; a chi smette di lavorare, dopo aver raggiunto l’età minima ovvero in quanto versi in una situazione di incapacità al lavoro, viene pagata la pensione, cioè una rendita vitalizia. Tale rendita è reversibile, vale a dire viene pagata al coniuge e, se minori di età, ai figli del pensionato deceduto.
Per poter beneficiare della previdenza sociale i lavoratori debbono pagare mensilmente una somma di denaro che viene trattenuta dal loro stipendio (i c.d.“contributi previdenziali”), cui si aggiungono i contributi versati dal datore di lavoro. Il versamento dei contributi è obbligatorio.
Il compito di raccogliere i contributi previdenziali e di pagare le pensioni è affidato a soggetti pubblici specializzati, gli Enti previdenziali. I principali sono l’INPS (che si occupa prevalentemente dei lavoratori privati) e l’INPDAP (che si occupa dei lavoratori pubblici).
La pensione obbligatoria (cioè derivante dal pagamento dei contributi obbligatori per legge) costituisce il primo pilastro della previdenza.
Considerato che la pensione obbligatoria può non assicurare da sola un adeguato tenore di vita, i lavoratori possono scegliere di destinare una parte del proprio risparmio alla costruzione di una rendita aggiuntiva, versando contributi alle forme pensionistiche complementari. Il versamento dei contributi è libero e volontario. Le forme pensionistiche complementari si distinguono in due categorie: i fondi pensione e i piani pensionistici individuali (PIP), entrambi sottoposti alla vigilanza della COVIP.
I fondi pensione costituiscono il secondo pilastro della previdenza e sono istituiti da banche, assicurazioni, SGR e SIM; possono essere chiusi o aperti. Ai fondi chiusi possono iscriversi solo i lavoratori che appartengono ad una determinata categoria (dipendenti di una particolare azienda, che svolgono un determinato tipo di lavoro o residenti in una particolare Regione); ai fondi aperti, invece, può iscriversi chiunque.
I PIP costituiscono il terzo pilastro della previdenza e si realizzano mediante polizze assicurative (contratti di assicurazione sulla vita a scopo previdenziale).

IL PRIMO PILASTRO DELLA PREVIDENZA
La pensione obbligatoria (cioè derivante dal pagamento dei contributi obbligatori per legge) costituisce il primo pilastro della previdenza.
La legge fissa le condizioni per avere diritto alla pensione e il modo in cui si calcola.
Le condizioni essenziali per avere diritto alla pensione sono:
- aver compiuto una determinata età;
- aver versato contributi previdenziali per un periodo minimo;
- smettere di lavorare (solo per i lavoratori dipendenti).
Il metodo di calcolo della pensione può essere “retributivo”, cioè basato sulla retribuzione percepita, o “contributivo”, cioè basato sui contributi versati, a seconda del momento in cui si è cominciato a lavorare. Il sistema retributivo si applica ai lavoratori con almeno 18 anni di contributi al 31 dicembre 1995; il sistema contributivo a quelli che hanno iniziato a lavorare dal 1° gennaio 1996. Per i lavoratori con meno di 18 anni al 31 dicembre 1995 si applica il metodo di calcolo “misto”, per cui la pensione viene calcolata con il sistema retributivo per l’anzianità maturata fino al 31 dicembre 1995 e con quello contributivo per l’anzianità maturata dopo.
Il rapporto tra l’importo della prima pensione dopo la cessazione dell’attività lavorativa e l’importo dell’ultima retribuzione pagata al lavoratore si chiama “tasso di sostituzione”. Indica in quale misura il lavoratore potrà mantenere il suo reddito, e quindi il suo tenore di vita, dopo essere andato in pensione (più è alto il tasso di sostituzione, più la pensione sarà sufficiente a garantire un tenore di vita simile a quello posseduto nel periodo dell’attività lavorativa).
Le recenti riforme della previdenza comportano una riduzione del tasso di sostituzione della pensione obbligatoria, soprattutto per i lavoratori più giovani.
Se il tasso di sostituzione della pensione obbligatoria è troppo basso, il lavoratore trova difficoltà a mantenere lo stesso tenore di vita. Può integrare la pensione obbligatoria aderendo in tempo utile ad una forma pensionistica complementare. In questo modo la somma della pensione obbligatoria (primo pilastro) e di quella complementare (secondo e/o terzo pilastro) possono garantire un tasso di sostituzione adeguato.

IL SECONDO PILASTRO DELLA PREVIDENZA
I fondi pensione (aperti o chiusi) sono istituiti da banche, assicurazioni, Società di Gestione del Risparmio (SGR) e Società di Intermediazione Mobiliare (SIM).
Ai fondi aperti può iscriversi chiunque.
Ai fondi chiusi, invece, possono iscriversi solo i lavoratori che appartengono ad un determinato gruppo (dipendenti di un’azienda o di un gruppo di aziende; lavoratori appartenenti ad una categoria, ad un comparto o ad un raggruppamento territoriale).
Sono detti “negoziali” i fondi costituiti sulla base di un accordo tra datore di lavoro e sindacati o associazioni di categoria (contratti collettivi nazionali, accordi o regolamenti aziendali, accordi fra lavoratori autonomi o liberi professionisti);
“regionali” quelli costituiti con legge regionale, ai quali possono aderire solo coloro che risiedono o lavorano nella Regione.

IL TERZO PILASTRO DELLA PREVIDENZA
I PIP si realizzano mediante polizze assicurative (contratti di assicurazione sulla vita a scopo previdenziale).
FORME PENSIONISTICHE COMPLEMENTARI
Le forme pensionistiche complementari costituiscono il secondo e il terzo pilastro della previdenza. La scelta di aderire ad una forma pensionistica complementare è libera e volontaria. Chi aderisce ad una di queste forme acquista il diritto a ricevere una pensione complementare, che si aggiunge a quella obbligatoria.
I contributi versati alla previdenza complementare (che sono volontari) vengono investiti sui mercati finanziari da soggetti specializzati. La pensione viene calcolata sulla base di tutti i contributi versati e dei rendimenti finanziari eventualmente ottenuti fino al momento della pensione.
Le condizioni per avere diritto alla pensione complementare sono fissate dalla legge e sono le stesse previste per avere diritto alla pensione obbligatoria.
Le forme pensionistiche complementari si distinguono in:
- fondi pensione: secondo pilastro della previdenza
- piani pensionistici individuali (PIP): terzo pilastro della previdenza.
Tutte le forme pensionistiche complementari sono regolate dalle stesse norme (anche fiscali) e sono sottoposte al controllo della Commissione di Vigilanza sui Fondi Pensione.

ADERIRE ALLA PREVIDENZA COMPLEMENTARE?
Elementi per una scelta consapevole
Gli elementi da considerare per scegliere in modo consapevole se aderire o meno alla previdenza complementare sono:
1. il tasso di sostituzione atteso, cioè il prevedibile rapporto tra l’importo della prima pensione obbligatoria che spetterà al momento della cessazione dell’attività lavorativa e l’importo dell’ultima retribuzione;
2. il trattamento fiscale del risparmio destinato alla previdenza rispetto a quello destinato ad altri tipi di investimento;
3. i possibili rendimenti finanziari dei contributi versati alla previdenza complementare rispetto a quelli che si possono attendere da altri investimenti e, in particolare, dal Trattamento di Fine Rapporto (TFR);
4. le condizioni di utilizzo delle somme accumulate come TFR o presso i fondi;
5. le spese di gestione
• Tasso di sostituzione atteso
Le recenti riforme della previdenza comportano una riduzione del tasso di sostituzione della pensione obbligatoria, soprattutto per i lavoratori cui si applica, in tutto o in parte, il sistema di calcolo “contributivo” (cioè coloro che avevano meno di 18 anni di contribuzione al 31 dicembre 1995) e per i lavoratori “precari”, che hanno interruzioni dei periodi di versamento dei contributi obbligatori e/o retribuzioni basse.
Il tasso di sostituzione è basso anche per i lavoratori autonomi e i liberi professionisti.
Se il tasso di sostituzione è troppo basso, la sola pensione obbligatoria non sarà sufficiente a garantire un tenore di vita simile a quello posseduto nel periodo dell’attività lavorativa
• Trattamento fiscale
Il risparmio versato ad una forma pensionistica complementare è soggetto ad una tassazione più favorevole rispetto a tutte le altre forme di investimento:
- le somme versate ai fondi o ai PIP fino all’importo di 5.164,56 euro all’anno non sono tassate; alle somme versate oltre tale limite si applicano le stesse aliquote con cui è tassata la retribuzione;
- i rendimenti finanziari degli investimenti sono tassati all’11% invece che al 12,5%;
- le pensioni sono tassate con un’aliquota compresa tra il 9 e il 15% (invece che con la tassazione ad aliquota marginale come gli altri redditi).
• Rendimenti finanziari
La legge riconosce il diritto dei lavoratori a ricevere una somma di denaro al momento della cessazione del rapporto di lavoro, la cosiddetta “liquidazione”: si tratta del Trattamento di Fine Rapporto (TFR), che viene calcolato mese per mese dal datore di lavoro e “messo da parte” fino al momento della cessazione del servizio. Il TFR spetta al lavoratore indipendentemente dalla pensione.
Le somme accantonate mese per mese vengono “rivalutate”, cioè aumentate di valore, in base ad un meccanismo automatico fissato dalla legge: il TFR costituisce pertanto un “investimento sicuro”, che garantisce al lavoratore di ottenere tutto il capitale accumulato nel tempo più un rendimento finanziario, che però non è molto elevato.
I lavoratori hanno ora la possibilità di utilizzare il TFR come contributo per finanziare la propria pensione complementare; possono quindi scegliere di versare mese per mese il loro TFR in una forma pensionistica complementare invece che lasciarlo presso il datore di lavoro. Per quanto riguarda modi e tempi di questa scelta, si può consultare il sito della Riforma della Previdenza complementare. Se il lavoratore non effettua in modo esplicito una scelta diversa, il TFR finisce automaticamente in un fondo pensione.
Il TFR versato ad una forma complementare viene investito sui mercati finanziari insieme a tutti gli altri contributi, quindi può aumentare o diminuire di valore secondo l’andamento degli investimenti. C’è comunque la possibilità, quando si versa il TFR in un fondo pensione, di scegliere linee di investimento che garantiscano la restituzione di tutte le somme versate e un rendimento analogo a quello fissato dalla legge per il TFR.
Sebbene l’andamento passato dei rendimenti non possa essere considerato garanzia di rendimenti futuri, le analisi compiute dimostrano che gli investimenti in attività più rischiose (azioni e obbligazioni a medio-lungo termine) consentono di ottenere, nel lungo periodo, rendimenti più elevati. Pertanto, i lavoratori più giovani possono trovare conveniente scegliere, all’interno di una forma pensionistica complementare, linee di investimento con una quota più elevata di azioni; mano a mano che si avvicinano alla pensione dovrebbero invece spostarsi su linee che investono in strumenti meno rischiosi, come le obbligazioni e i titoli a breve termine, per contenere il rischio che le somme accumulate perdano valore proprio nel momento del pensionamento.
Va inoltre considerato che la possibilità di raggiungere pensioni adeguate richiede un lungo tempo di accumulo del risparmio, per cui appare preferibile “mettere da parte” nelle forme pensionistiche complementari anche piccole somme purché per un periodo lungo; è infatti più conveniente iscriversi da giovani, anche se si hanno stipendi più bassi e poca capacità di risparmio, piuttosto che rinviare l’iscrizione a quando si potranno avere stipendi più alti.

• Condizioni di utilizzo
E’ possibile chiedere un anticipo sulle somme accumulate sia come TFR presso il datore di lavoro sia presso una forma pensionistica complementare. Le differenze riguardano:
- il motivo per cui si può chiedere l’anticipo (gli anticipi sul TFR si possono richiedere dopo 8 anni per spese sanitarie e per l’acquisto o la ristrutturazione della casa di abitazione; gli anticipi sui fondi si possono richiedere in qualunque momento per spese sanitarie; dopo 8 anni per qualsiasi motivo);
- l’importo massimo che può essere concesso (per il TFR, il 70% di quanto accumulato presso il datore di lavoro fino a quel momento; per i fondi, il 75% di quanto accumulato non solo come TFR ma anche come contributo a carico del lavoratore e del datore di lavoro in caso di spese sanitarie e acquisto o ristrutturazione della casa; il 30% per ogni altro motivo);
- il trattamento fiscale (per il TFR, tassazione separata con applicazione dell’aliquota media degli ultimi 5 anni; per i fondi, tassazione con aliquota compresa tra il 9 e il 15% per le spese sanitarie, 23% per gli altri motivi);
- quante volte si può richiedere l’anticipo (una sola per il TFR, quante volte si vuole per i fondi, comunque entro il limite massimo del 75% della posizione accumulata fino al momento della richiesta).
Sono diverse anche le condizioni di utilizzo finale delle somme:
- il TFR viene pagato interamente in capitale (cioè in contanti), per cui tutto quanto accumulato viene pagato direttamente al lavoratore nel momento in cui smette di lavorare;
- la posizione accumulata nei fondi (compreso il TFR) può essere pagata in contanti al massimo fino alla metà; il resto viene pagato in forma di rendita, quindi come somma mensile. La possibilità di ottenere in capitale l’intera somma accumulata è limitata ad alcuni casi particolari.
Nel valutare quale sia il più conveniente tra i diversi modi di utilizzare le somme accumulate in una forma pensionistica complementare va comunque tenuto presente che prelevarne una parte in contanti riduce l’importo della pensione che sarà pagata al momento della cessazione dell’attività lavorativa. In particolare, quando si chiede un anticipo diminuiscono le somme che possono essere investite sui mercati finanziari e, di conseguenza, i possibili rendimenti; ciò può rendere difficile riuscire ad accumulare una somma sufficiente a garantire una pensione complementare adeguata.

• Spese di gestione
Lasciare il TFR presso il datore di lavoro non comporta costi per il lavoratore.
L’adesione ad una forma pensionistica complementare può comportare alcune spese (commissioni di ingresso e di uscita, commissioni di gestione). I costi sono diversi tra le varie forme (fondi chiusi, aperti e PIP) e vanno attentamente considerati prima di scegliere la forma pensionistica cui aderire.

LA RIFORMA DELLA PREVIDENZA COMPLEMENTARE
Profili generali
In attuazione della legge 23 agosto 2004 n. 243 recante Norme in materia pensionistica e delega al Governo nel settore della previdenza pubblica, per il sostegno alla previdenza complementare e all’occupazione stabile e per il riordino degli enti di previdenza e assistenza obbligatoria (di seguito legge delega), il Governo ha adottato il decreto legislativo n. 252 del 5 dicembre 2005 di Disciplina delle forme pensionistiche complementari pubblicato nel S. O. alla Gazzetta Ufficiale n.289 del 13 dicembre 2005 (di seguito decreto). La legge 27 dicembre 2006, n. 296 (legge finanziaria 2007) ha anticipato l’entrata in vigore del decreto, inizialmente fissata al 1° gennaio 2008, al 1° gennaio 2007.
Il decreto attua una riforma complessiva della previdenza complementare finalizzata, in linea con i principi fissati dalla legge delega, allo sviluppo della previdenza complementare quale strumento essenziale di tutela volto alla costruzione di una rendita aggiuntiva destinata ad integrare adeguatamente il livello complessivo di reddito nell’età anziana.
La scelta di potenziare la previdenza complementare si ricollega alla riforma del sistema di previdenza obbligatoria attuata a partire dagli anni novanta. I fenomeni dell’allungamento della vita media e della diminuzione del tasso di natalità, infatti, sbilanciando in prospettiva il rapporto tra il numero dei pensionati e degli occupati, avevano indotto il legislatore a rivedere il sistema di calcolo delle pensioni obbligatorie al fine di ridurre la spesa pensionistica. E’ stato così previsto il progressivo passaggio dal metodo retributivo (importo della pensione calcolato in percentuale degli ultimi stipendi percepiti) a quello contributivo (importo della pensione legato ai contributi versati)che comporta una significativa riduzione del tasso di sostituzione a parità di anzianità contributiva e anagrafica.
In tale contesto, al fine di consentire il mantenimento di un tenore di vita adeguato dopo il pensionamento, il decreto realizza un assetto normativo volto a favorire l’aumento delle adesioni e l’accrescimento dei flussi di finanziamento alla previdenza complementare attraverso l’istituto del conferimento del trattamento di fine rapporto (di seguito TFR), un più favorevole regime fiscale di contributi e prestazioni, l’ampliamento delle opportunità di scelta per i lavoratori e l’adozione di strumenti volti ad assicurare un’adesione effettivamente consapevole e una più ampia libertà di circolazione all’interno del sistema.
Sotto tale profilo, diretti interessati della riforma sono tutti i lavoratori dipendenti del settore privato e i lavoratori autonomi; sono esclusi i dipendenti pubblici, per i quali il decreto, in attuazione delle disposizioni della legge delega prevede che, in attesa dell’emanazione di specifica disciplina, continua ad applicarsi la disciplina previgente (d. lgs. 124/1993).

La vigilanza della COVIP
Strumento essenziale per il raggiungimento degli obiettivi della riforma è la previsione di un assetto che garantisca l’uniformità delle regole in vigore per tutte le forme pensionistiche complementari e l’omogeneità del sistema di vigilanza sull’intero settore. Così, il decreto provvede ad uniformare tutte le forme pensionistiche, prevedendo l’applicazione di regole omogenee in materia di trasparenza e confrontabilità dei costi e dei risultati e di modalità di autorizzazione nonché la sottoposizione di tutte le forme pensionistiche alla vigilanza della COVIP, la cui attività è finalizzata a perseguire la sana e prudente gestione dei fondi pensione e la trasparenza e la correttezza dei comportamenti avendo riguardo alla tutela degli iscritti e dei beneficiari di tutte le forme pensionistiche complementari e al buon funzionamento del sistema di previdenza complementare.
Per effetto del decreto, la COVIP, ferme restando le attribuzioni già svolte sui fondi pensione negoziali, vede ampliate in modo significativo le competenze sui fondi pensione aperti e sulle forme individuali e diviene titolare di una serie di competenze nuove sulle forme pensionistiche individuali e su alcune categorie di fondi pensioni preesistenti prima sottratte alla propria vigilanza. In particolare, con riferimento ai fondi aperti e alle forme individuali, vengono affidate alla COVIP le competenze in materia di regolamentazione e vigilanza sulle modalità di offerta al pubblico sia per la fase di raccolta delle adesioni sia per quella relativa all’informativa periodica durante il rapporto di partecipazione. Con riguardo alle forme pensionistiche individuali, viene poi attribuito alla COVIP il potere di approvare il regolamento di tali forme richiesto dalla nuova normativa a corredo del contratto di assicurazione e necessario per l’iscrizione anche di tali forme nell’albo tenuto dalla COVIP. In ultimo, vengono assoggettati alla vigilanza della Commissione le forme preesistenti istituite all’interno di enti, società o gruppi sottoposti ai controlli in materia di esercizio della funzione creditizia e assicurativa attualmente sottoposte alla vigilanza delle Autorità che esercitano i controlli sul soggetto al cui interno la forma è costituita.

Alla Commissione viene anche demandato il compito di indirizzare i soggetti vigilati nell’adeguamento alle nuove disposizioni mediante l’adozione di specifiche direttive destinate a tutte le forme pensionistiche. L’adeguamento delle forme al nuovo contesto normativo e l’approvazione forme pensionistiche complementari possano ricevere dal 1° gennaio 2007 nuove adesioni, anche mediante il conferimento del TFR.
Al fine di consentire ai lavoratori di manifestare sin dal 1° gennaio 2007 la volontà di aderire alle forme di previdenza complementare ammesse dall’ordinamento, anche conferendo il proprio TFR maturando, l’articolo 1, comma 752, della legge n. 296/2006, innovando l’articolo 23, comma 4, del d. lgs. n. 252/2005, ha stabilito che le forme pensionistiche complementari che hanno provveduto agli adeguamenti alla nuova disciplina, dandone comunicazione alla COVIP secondo le istruzioni dalla stessa impartite, possono raccogliere nuove adesioni, anche con riferimento al finanziamento tramite conferimento del TFR. Il versamento dei nuovi flussi di contributi e di TFR avverrà peraltro solo dal 1° luglio 2007, anche per il periodo compreso tra la data della scelta e il 30 giugno 2007, previa approvazione degli adeguamenti statutari e regolamentari da parte della COVIP. In attuazione della suddetta previsione (già contenuta nel decreto-legge n. 279 del 13 novembre 2006), la COVIP ha emanato, con delibera del 30 novembre 2006, le istruzioni relative alle procedure di adeguamento delle forme pensionistiche complementari alla nuova disciplina.
In tale provvedimento è tra l’altro precisato che sul sito della COVIP è data indicazione delle forme pensionistiche complementari che possono raccogliere adesioni ai sensi delle disposizioni del decreto 252/2005 e delle istruzioni della COVIP, a seguito di presentazione alla stessa COVIP delle prescritte comunicazioni, per le quali è in corso il procedimento di approvazione ovvero è stato conseguito il provvedimento medesimo.

Il conferimento del TFR
Lo sviluppo del settore della previdenza complementare per i lavoratori dipendenti viene in buona parte affidato dalla riforma al conferimento del TFR a tutte le forme pensionistiche complementari, ivi comprese le forme pensionistiche individuali (pur se, per queste ultime forme, solo per effetto di scelta esplicita del lavoratore). Viene quindi superato l’attuale vincolo normativo di destinazione del TFR solo a forme di natura collettiva.

Il decreto conferma il principio della libertà e volontarietà dell’adesione alle forme pensionistiche complementari. Tale principio trova applicazione anche nel caso di conferimento del TFR con modalità tacite (silenzio assenso), intendendosi il silenzio del lavoratore come manifestazione implicita di volontà cui viene collegato l’effetto dell’adesione alla forma pensionistica complementare individuata secondo i criteri fissati dal decreto.
La scelta di destinazione del TFR deve essere effettuata dal lavoratore entro sei mesi dall’assunzione o entro il 30 giugno 2007 per i lavoratori già assunti alla data di entrata in vigore del decreto (1° gennaio 2007). Con dichiarazione esplicita diretta al datore di lavoro, il lavoratore potrà scegliere di destinare il TFR maturando alla forma di previdenza complementare prescelta, sia essa collettiva o individuale, oppure di mantenere il TFR presso il datore di lavoro. In tale ultimo caso, però, se l’azienda occupa almeno 50 dipendenti, il TFR maturando verrà trasferito dal datore di lavoro al ‘Fondo per l’erogazione ai lavoratori dipendenti del settore privato dei trattamenti di fine rapporto’ gestito dall’INPS che assicura le stesse prestazioni previste dall’art. 2120 del codice civile.
Se entro i termini sopra individuati il lavoratore non effettuerà alcuna scelta, il TFR maturando sarà destinato dal datore di lavoro alla forma pensionistica collettiva individuata secondo i criteri fissati dal decreto e, in ultimo, alla forma pensionistica complementare appositamente istituita presso l’INPS, denominata FONDINPS. (per un maggiore dettaglio in ordine alle modalità di scelta sulla destinazione del TFR si possono consultare gli schemi allegati).
Con il conferimento esplicito o tacito del TFR, il lavoratore aderisce alla forma pensionistica divenendo titolare dei diritti di informazione e partecipazione tipici di tutti gli iscritti.
Al fine di garantire che la scelta sulla destinazione del TFR sia effettuata con piena consapevolezza, la legge pone a carico del datore di lavoro l’obbligo di dare ai dipendenti le informazioni sulle diverse opzioni possibili e di fornire al lavoratore che nei trenta giorni anteriori alla scadenza del termine non abbia effettuato alcuna scelta esplicita informazioni sulla forma pensionistica alla quale, perdurando il silenzio, verrà automaticamente destinato il TFR maturando. Oltre a ciò, è prevista la realizzazione da parte delle Istituzioni competenti di campagne informative rivolte a tutti i lavoratori interessati finalizzate a diffondere i contenuti della riforma e a promuovere adesioni consapevoli.

Nuova disciplina di alcuni istituti
Con riguardo all’assetto delle forme pensionistiche complementari, il decreto interviene, in primo luogo, sulla materia della governance, sia mediante la valorizzazione del ruolo di alcuni organi, sia prevedendo l’adozione di nuove figure in funzione di accrescimento della tutela dell’interesse degli iscritti (in particolare, per i fondi aperti, è disposta l’istituzione di un organismo di sorveglianza destinato a rappresentare adeguatamente gli interessi degli aderenti e a verificare che l’amministrazione e gestione del fondo si svolgano nell’esclusivo interesse degli stessi).
Sotto il profilo contributivo, è prevista la possibilità per il lavoratore di definire il contributo a proprio carico, ferma restando, nelle forme pensionistiche collettive, la competenza delle fonti istitutive a stabilire la misura minima della contribuzione a carico dei lavoratori e del datore di lavoro. E’ prevista la possibilità di contribuire alle forme anche solo mediante il conferimento del TFR; qualora il lavoratore versi anche contributi a proprio carico ha diritto alla contribuzione a carico del datore di lavoro, nei limiti e secondo le modalità stabilite dai contratti e accordi collettivi.
Viene poi modificato il regime delle prestazioni, con la previsione della maturazione del diritto alla prestazione pensionistica al conseguimento da parte dell’iscritto dei requisiti di accesso alla pensione obbligatoria, con almeno 5 anni di iscrizione alla previdenza complementare. Le prestazioni pensionistiche complementari possono essere erogate, a richiesta dell’iscritto, interamente in rendita oppure parte in capitale (fino ad un massimo del 50% della posizione maturata) e parte in rendita. Nel caso in cui, convertendo in rendita almeno il 70% della posizione individuale maturata, l’importo della pensione complementare sia inferiore alla metà dell’assegno sociale INPS la prestazione può essere fruita interamente in capitale.
Anche la disciplina delle anticipazioni subisce significative modifiche. Da un lato viene, infatti, fissato il limite massimo erogabile pari al 75 per cento della posizione maturata per le ipotesi di spese per gravi motivi di salute e acquisto e ristrutturazione della prima casa di abitazione, dall’altro viene eliminato il periodo minimo di partecipazione alla forma per ottenere il beneficio in caso di spese sanitarie. L’anticipazione, per tale fattispecie, può quindi essere richiesta in qualsiasi momento del rapporto di partecipazione. In ultimo, vengono ampliate le causali che danno luogo al conseguimento del beneficio, prevedendone l’erogazionefino al massimo del 30 per cento della posizione anche per altre esigenze del lavoratore.
Per le prestazioni pensionistiche e le anticipazioni conseguite per spese sanitarie, in ragione della rilevanza sociale degli interessi ad esse sottese, viene prevista l’applicazione dei limiti normativi alla cedibilità, pignorabilità e sequestrabilità in vigore per le pensioni di primo pilastro. Per lo stesso motivo, tali prestazioni sono sottoposte ad un regime fiscale particolarmente favorevole. L’aliquota applicata sulle somme erogate è infatti pari al 15 per cento; inoltre per le prestazioni pensionistiche la stessa scende di 0,30 percentuali per ogni anno di partecipazione successivo al quindicesimo fino ad un massimo del 6 per cento. Dopo 35 anni di partecipazione, dunque, l’aliquota applicata sulla prestazione è pari al 9 per cento.
E’ inoltre ridefinita la disciplina del riscatto per perdita dei requisiti di partecipazione alla forma pensionistica, prevedendo espressamente la possibilità di riscattare l’intera posizione, con tassazione ridotta, nei casi di invalidità permanente con perdita della capacità di lavoro fino ad un terzo o di disoccupazione protratta per un periodo superiore a 48 mesi; per periodi di disoccupazione più brevi, comunque superiori a 12 mesi, o in caso di procedure di mobilità o cassa integrazione guadagni è invece possibile riscattare un importo non superiore al 50 per cento della posizione accumulata. Viene poi unificata per tutte le forme pensionistiche la disciplina del riscatto per premorienza rispetto alla maturazione del diritto alla prestazione: in tal caso l’intera posizione spetta agli eredi o ai diversi beneficiari indicati dall’aderente.
In ultimo, nel caso del trasferimento volontario della posizione ad altre forme, che potrà essere esercitato dall’iscritto decorsi due anni di partecipazione, il lavoratore ha diritto al versamento alla forma prescelta del TFR maturando e dell’eventuale contributo datoriale, nei limiti e secondo le modalità definite dalle fonti istitutive a carattere collettivo.