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NECESSARIA LA CONVALIDA PER LA RISOLUZIONE DEL LAVORO

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NECESSARIA LA CONVALIDA DELL'UFFICIO DEL LAVORO

PER LA RISOLUZIONE CONSENSUALE DEL RAPPORTO DI LAVORO

SOTTOSCRITTO DALLA LAVORATRICE MADRE -

Come per le dimissioni

(Cassazione Sezione Lavoro n. 12128 dell'11 giugno 2015, Pres. Macioce, Rel. Amendola).

Nell'ambito del testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità (d. Igs. n. 151 del 26 marzo 2001) è contenuto, nel capo IX dedicato a "Divieto di licenziamento, dimissione, diritto al rientro", l'art. 55 che, al quarto comma, nella versione di testo applicabile ratione temporis, così disponeva: "La richiesta di dimissioni presentata dalla lavoratrice, durante il periodo di gravidanza, e dalla lavoratrice o dal lavoratore durante il primo anno di vita del bambino o nel primo anno di accoglienza del minore adottato o in affidamento, deve essere convalidata dal servizio ispettivo del Ministero del lavoro, competente per territorio. A detta convalida è condizionata la risoluzione del rapporto di lavoro".

In generale il recesso del lavoratore è atto unilaterale di autonomia negoziale che ha come effetto tipico quello di risolvere il rapporto di lavoro nel momento in cui perviene nella sfera di conoscenza del destinatario. Esso è tradizionalmente affidato al principio della libertà delle forme (v. Cass. n. 2048 del 1998), salvo i casi di diversa previsione della contrattazione individuale o collettiva ovvero di prescrizione da parte dell'ordinamento di una particolare procedura che condiziona l'efficacia o la validità dell'atto, contro eventuali abusi datoriali volti a viziare la genuinità del recesso dal rapporto di lavoro. Così, a tutela della maternità e della paternità, il legislatore, una volta posti i divieti di licenziamento di cui all'art. 54 del d. Lgs. n. 151 del 2001, simmetricamente ha previsto una procedura di convalida delle dimissioni formulate dal lavoratore nel periodo protetto.

La ratio è quella di evitare che, nello stesso periodo, possa essere raggiunto il medesimo effetto di risoluzione del rapporto di lavoro derivante da un licenziamento, attraverso un atto che è formalmente ad iniziativa della lavoratrice o del lavoratore ma che non corrisponde ad una volontà dismissiva liberamente formatasi. Si presume, infatti, che le dimissioni possano essere influenzate "da ragioni collegate alla specifica situazione che induce a privilegiare esigenze di tutela della prole rispetto alla stabilità dell'occupazione lavorativa" (così Cass. n. 4919 del 2014) e che possano essere indotte dal datore di lavoro che approfitti di una peculiare situazione psicologica del dipendente.

Pertanto si affida ai servizi ispettivi ministeriali il compito di indagare la genuinità e la spontaneità della volontà dismissiva; solo ove intervenga la "convalida" -interpretabile come condizione di efficacia del negozio- si realizza "la risoluzione del rapporto di lavoro". Ciò posto, deve ritenersi che, nonostante la disposizione in esame si riferisca testualmente alle sole "dimissioni", la stessa sia applicabile, come ritenuto dai giudici di appello, anche alle ipotesi di "risoluzione consensuale". Invero, sebbene le due tipologie negoziali si distinguano chiaramente per struttura, connessa all'unilateralità della prima ed alla bilateralità della seconda, esse hanno in comune l'effetto, che è quello di produrre la risoluzione del rapporto di lavoro. Ed è proprio questo effetto a cui guarda l'intento protettivo della norma, finalizzata ad evitare che la parte che lavora, in un momento così particolare della propria vita in cui è madre o padre, risolva il rapporto esprimendo una volontà che non si sia correttamente determinata.

In tale prospettiva è sicuramente omogenea la situazione di chi si dimette senza che sia formalmente acquisito il consenso del datore di lavoro con la situazione di chi si dimette con l'accordo di questi, nell'ambito di una risoluzione consensuale del rapporto. Diversamente ragionando le finalità di tutela della disposizione sarebbero agevolmente eluse. Posto che sia il datore di lavoro a voler ottenere la cessazione del rapporto di lavoro con una lavoratrice in gravidanza, sarebbe facile evitare il controllo dei servizi ispettivi ministeriali formalizzando una risoluzione consensuale in luogo di un mero atto di dimissioni. L'interpretazione accolta, che estensivamente attribuisce ai termini della norma scrutinata il più ampio significato tra quelli possibili, è altresì costituzionalmente orientata al rispetto dell'art. 37 Cost., secondo cui le condizioni di lavoro devono consentire l'adempimento dell'essenziale funzione familiare e assicurare alla madre ed al bambino una speciale adeguata protezione. Pertanto la disciplina che regola le dimissioni della lavoratrice madre non può essere interpretata in modo differenziato rispetto a quella che regola la risoluzione del rapporto con il consenso del datore di lavoro, acquisite le identiche ed ineludibili esigenze di salvaguardia della funzione familiare e di protezione della prole. L'esegesi qui affermata appare altresì coerente con la successiva evoluzione legislativa della materia. Infatti, l'art. 4, co. 16, della L. n. 92 del 2012, ha sostituito l'art. 55, co. 4, del d. Lgs. n. 151 del 2001, prevedendo espressamente, fra l'altro, che "la risoluzione consensuale del rapporto", oltre alla richiesta di dimissioni, debba essere convalidata dal servizio ispettivo del Ministero del lavoro e delle politiche sociali e che a tale convalida sia "sospensivamente condizionata l'efficacia della risoluzione del rapporto di lavoro".

In questa parte la 1. n. 92 del 2012, ha, dunque, una "valenza confermativa e chiarificatrice" di quanto era già previsto e ricostruibile anche sulla base della precedente disciplina.