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Norme disciplinari. Affissione in luogo accessibile a tutti

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SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONE LAVORO, SENTENZA N. 20733 DEL 3
OTTOBRE 2007

Presidente Ianniruberto – Relatore Monaci
Pm Apice – Parzialmente conforme                                                                                           – Ricorrente Stec Società Tipografia Editrice Capitolina Spa

Svolgimento del processo
La controversia ha per oggetto l'impugnazione da parte di un gruppo di dipendenti delle sanzioni disciplinari loro irrogate dalla datrice di lavoro Stec soc. Tipografica Editrice Capitolina. Il giudice di primo grado annullava le sanzioni, e con sentenza n. 1486/03, in data 16 gennaio/9 aprile 2003, la Corte d'Appello di Roma rigettava l'appello della Stec.
Avverso la sentenza, che non risulta notificata, la società Stec ha proposto ricorso per cassazione, con due motivi, notificato presso il domicilio eletto ai tredici intimati, in copie separate, l'otto aprile 2004, in termine.
Gli intimati non hanno presentato difese in questa fase.

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo di impugnazione la ricorrente società Stec deduce la violazione e falsa applicazione dell'art. 7 della legge n. 300 del 1970 con riferimento agli artt. 2082 e 2086 c.c., nonché l'illogicità, la contraddittorietà e l'erroneità della motivazione su di un punto decisivo della controversia.
L'art. 7 prescrive soltanto che le norme disciplinari devono essere portate a conoscenza dei lavoratori mediante affissione in un luogo accessibile a tutti.
Non era prevista, invece, nessuna indicazione specifica sui requisiti che il luogo doveva possedere per essere ritenuto idoneo a garantire la conoscibilità della normativa disciplinare.
L'unico elemento rilevante era il fatto che il contratto collettivo fosse posto in un luogo facilmente accessibile.

Non occorreva che fosse affisso in una apposita bacheca.
La società aveva adempiuto pienamente all'obbligo a suo carico di affissione e di comunicazione.

2. Con il secondo motivo la società ricorrente denunzia la nullità della sentenza per omessa motivazione e statuizione sulla legittimità dei procedimenti e delle sanzioni disciplinari.
Le sanzioni erano perfettamente legittime e giustificate.
I dipendenti erano stati sottoposti a sanzioni disciplinari non avendo effettuato la manutenzione ordinaria delle macchine attraverso la raccolta delle polveri in un apposito macchinario (bidone aspiratutto) messo a loro disposizione dall'azienda, violando così l'obbligo, previsto a loro carico negli accordi aziendali intervenuti tra le organizzazioni sindacali e la Stec, di provvedere ad effettuare, nei limiti dell'orario di lavoro, la piccola manutenzione delle apparecchiature del reparto.

Il comportamento dei lavoratori, che non avevano adempiuto ai propri obblighi, non poteva non essere contestato e sanzionato dall'azienda.

3. Il ricorso deve essere accolto.
È fondato, infatti, il primo motivo di impugnazione.
Come si legge nel testo, a pag. 2, il giudice di primo grado aveva fondato la decisione relativa alla inidoneità dell'affissione delle sanzioni disciplinari su quattro circostanze:
che non era stato affisso il solo codice disciplinare ma il testo integrale del contratto collettivo, che quello affisso non era il contratto collettivo in vigore ma uno precedente, che era esposto in un luogo in cui non era più necessario il passaggio dei lavoratori, che non era affisso nelle bacheche per i comunicati sindacali e aziendali.
Il giudice d'appello ha riconosciuto il carattere non decisivo dei primi due argomenti, osservando, esattamente, che era sufficiente l'affissione del contratto collettivo contenente le sanzioni e che non era stato allegato che con il rinnovo contrattuale fossero state modificate le norme relative alle sanzioni.
Ha ritenuto, invece, che fossero rilevanti le altre due circostanze, che le modalità di affissione del codice disciplinare effettuate dalla Stec non fossero state idonee, sia perché era stato affisso in un locale in cui in precedenza erano apposti i cartellini di presenza ma in cui ormai i lavoratori dovevano recarsi appositamente, in quanto, a seguito di cambiamenti nei locali produttivi, non dovevano passare più necessariamente di lì, sia perché l'affissione non era stata effettuata, invece, nelle apposite bacheche per le comunicazioni aziendali.
Anche questi argomenti sono privi di coerenza logica.
La disciplina in materia prescrive, all'articolo 7, primo comma, della legge 20 maggio 1970, n. 300, che "le norme disciplinari relative alle sanzioni, alle infrazioni in relazione alle quali ciascuna di esse può essere applicata ed alle procedure di contestazione delle stesse, devono essere portate a conoscenza dei lavoratori mediante affissione in luogo accessibile a tutti."
È necessario perciò che i locali in cui sono affisse le disposizioni siano accessibili liberamente a tutti i lavoratori.
Questo obbligo a carico del datore di lavoro non può essere ristretto alla necessità che i locali in cui viene effettuata l'affissione non siano chiusi e che tutti i dipendenti abbiano piena libertà di accedervi senza impedimenti di sorta e senza dover chiedere permessi particolari; la possibilità di recarsi nei locali in cui sono esposte le norme disciplinari deve essere effettiva, non meramente teorica, e perciò rientra nel concetto di libero accesso anche la comodità dell'accesso, la necessità che non sussistano difficoltà particolari.
Non sussiste, però, un obbligo di effettuare l'affissione in locali in cui i dipendenti devono passare necessariamente: la norma richiede il libero accesso, quindi accesso non impedito, non difficoltoso, non l'accesso necessitato, non evitabile.
Ugualmente la legge non richiede che l'affissione venga effettuata nelle bacheche aziendali, che possono mancare o essere destinate altre comunicazioni, e che comunque non rendono più agevole la lettura delle norme.

Gli argomenti su cui si è fondato il del giudice del merito sono infondati in diritto, mentre la motivazione della sentenza impugnata è palesemente insufficiente.
Manca un necessario nesso logico tra le considerazioni in fatto e le conclusioni cui è giunta la Corte d'Appello.

4. Di conseguenza il primo motivo di impugnazione deve essere accolto, mentre il secondo motivo, sul merito sostanziale delle infrazioni, rimane assorbito.
La sentenza impugnata deve essere cassata, e la causa rinviata alla Corte d'Appello di Roma in diversa composizione per un nuovo esame da effettuare alla luce delle considerazioni svolte e dei principi di diritto affermati in questa sentenza.
Il giudice di rinvio provvederà, inoltre, alla liquidazione delle spese di questa fase di legittimità.

PQM
La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata, e, rinvia, anche per le spese, alla Corte d'Appello di Roma in diversa composizione.IL LAVORATORE DEMANSIONATO HA DIRITTO AL RISARCIMENTO DEL DANNO NON PATRIMONIALE - La prova del pregiudizio può essere data a mezzo di presunzioni (Cassazione Sezione Lavoro n. 29832 del 19 dicembre 2008, Pres. e Rel.
Ianniruberto).

Giorgio B., dipendente dell'Ilva con inquadramento nella sesta categoria impiegatizia, dal 1990 al 2000 è stato tenuto in una situazione di inattività oppure adibito a mansioni di basso livello (fotocopiatura) certamente non rispondenti alla sua qualifica. Dopo avere richiesto di assegnargli mansioni adeguate, poiché l'azienda non ha a ciò provveduto, dal marzo 2000 non si è presentato in ufficio. L'azienda lo ha licenziato il 3 aprile 2000 per assenza ingiustificata. Egli ha chiesto al Tribunale di Genova di annullare il licenziamento, di ordinare all'azienda di reintegrarlo in servizio con mansioni adeguate alla sua qualifica e di condannarla al risarcimento dei danni (biologico, esistenziale, morale) prodotti dal prolungato demansionamento. Il Tribunale ha annullato il licenziamento, ordinando la richiesta reintegrazione e disponendo il risarcimento del danno a termini dell'art. 18 St. Lav. (mancata retribuzione), in quanto ha ritenuto che il lavoratore, essendo l'azienda gravemente inadempiente, aveva il diritto di non presentarsi in ufficio. La Corte d'Appello di Genova ha confermato questa decisione ed ha anche condannato la società al risarcimento del danno esistenziale in misura pari al 50% della retribuzione relativa al periodo del demansionamento, nonché del danno morale liquidato in 15.000 euro.
L'azienda ha proposto ricorso per cassazione censurando la decisione impugnata per avere affermato l'illegittimità del licenziamento, per avere ritenuto configurabile un danno morale in assenza di reato e per avere liquidato il risarcimento del danno in mancanza di prova della sua esistenza.

La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 29832 del 19 dicembre 2008, Pres. e Rel. Ianniruberto) ha rigettato il ricorso nella parte concernente il licenziamento, in quanto ha ritenuto che la Corte di Genova abbia adeguatamente motivato l'accertamento della gravità dell'inadempienza aziendale e della proporzionalità della reazione del lavoratore. Per quanto attiene al danno da demansionamento, la Corte ha rigettato la censura relativa alla configurabilità del danno morale,
mentre ha ritenuto fondata quella relativa alla mancata prova del danno. La Corte ha richiamato la recente decisione delle Sezioni Unite (n. 26972 dell'11 novembre 2008) secondo cui: il danno non patrimoniale deve essere inteso nella sua accezione più ampia di danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica, anche in assenza di reato, sempre che si tratti di interessi presi in considerazione negli specifici casi determinati dalla legge o in via di interpretazione dal parte del giudice, chiamato ad individuare la sussistenza, alla stregua della Costituzione, di uno specifico diritto inviolabile della persona.

Le Sezioni Unite - ha affermato la Corte - hanno evidentemente confermato quel principio ormai acquisito nella giurisprudenza di legittimità per il quale "il danno morale consegue alla ingiusta lesione di un interesse inerente la persona, costituzionalmente garantito e, per essere risarcito, non è soggetto al limite derivante dalla riserva di legge correlata all'art. 185 cod. pen. e non presuppone, pertanto, la qualificabilità del danno illecito come reato, giacché il rinvio ai casi in cui la legge consente la riparazione del danno non patrimoniale ben può essere riferito, dopo l'entrata in vigore della Costituzione, anche alle previsioni della stessa, ove si consideri che il riconoscimento, ivi contenuto, dei diritti inviolabili inerenti alla persona non aventi natura economica implicitamente, ma necessariamente, ne esige la tutela, ed in tal modo configura un caso determinato dalla legge, al massimo livello, di riparazione del danno non patrimoniale".

Va pertanto escluso - ha affermato la Corte - che la risarcibilità del danno morale debba essere subordinata alla ricorrenza di un fatto reato. Per quanto attiene alla liquidazione del danno - ha osservato la Cassazione - la Corte di appello, avendo accertato il demansionamento, per tale solo fatto ha liquidato somme di vario importo imputandole a titolo di danno esistenziale e morale; con tale conclusione essa, non affrontando il problema ulteriore dell'allegazione del danno, della prova della sua esistenza in concreto e del nesso causale con il denunziato demansionamento, si è posta in palese contrasto con la più recente giurisprudenza di legittimità, che, a partire da Cass. Sez. Un. 24 marzo 2006 n. 6572, ha affermato che "in tema di demansionamento e di dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno non patrimoniale, che asseritamente ne deriva - non ricorrendo automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale - non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio medesimo; mentre il risarcimento del danno biologico è subordinato all'esistenza di una lesione dell'integrità psico-fisica medicalmente accertabile, il danno esistenziale (n.d. che, a seguito di Cass. 26972/2008 non ha una sua autonomia concettuale, ma è un elemento da considerare, ove ricorra il presupposto della sua "serietà", nel danno non patrimoniale) - da intendere come ogni pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul fare areddittuale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelta di vita diverse quanto all'espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno - va dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall'ordinamento, assumendo peraltro precipuo rilievo la prova per presunzioni, per cui dalla complessiva valutazione di precisi elementi dedotti (caratteristiche, durata, gravità, conoscibilità all'interno ed all'esterno del luogo di lavoro dell'operata dequalificazione, frustrazione di precisate e ragionevoli aspettative di progressione professionale, eventuali reazioni poste in essere nei confronti del datore comprovanti l'avvenuta lesione dell'interesse relazionale, effetti negativi dispiegati nelle abitudini di vita del soggetto) - il cui artificioso isolamento si risolverebbe in una lacuna del procedimento logico - si possa, attraverso un prudente apprezzamento, coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all'esistenza del danno, facendo ricorso, ai sensi dell'art. 115 cod. proc. civ., a quelle nozioni generali derivanti dall'esperienza, delle quali ci si serve nel ragionamento presuntivo e nella valutazione delle prove". La tesi della necessità di allegazione e prova - ha ricordato la Corte - è stata seguita dalla
successiva giurisprudenza di legittimità (Cass. 2 agosto 2006 n. 17564 e puntualmente richiamata e condivisa dalla richiamata Cass. Sez. Un. 26972/2008) e significativamente da Cass. 14 luglio 2006 n. 14729, la quale, in particolare, ha ribadito che il lavoratore ha diritto a svolgere le mansioni per le quali è stato assunto ovvero equivalenti alle ultime effettivamente svolte - e, quindi, a fortiori il diritto a non essere lasciato in condizioni di forzata inattività e senza
assegnazione di compiti, ancorché senza conseguenze sulla retribuzione: e, dunque, non solo il dovere, ma anche il diritto all'esecuzione della propria prestazione lavorativa - cui il datore di lavoro ha il correlato obbligo di adibirlo - costituendo il lavoro non solo un mezzo di guadagno, ma anche un mezzo di estrinsecazione della personalità di ciascun cittadino. La violazione di tale diritto del lavoratore all'esecuzione della propria prestazione - ha affermato la Corte - è fonte di responsabilità risarcitoria per il datore di lavoro; responsabilità che, peraltro, derivando dall'inadempimento di un'obbligazione, resta pienamente soggetta alle regole generali in materia di responsabilità contrattuale: sicché, se essa prescinde da uno specifico intento di declassare o svilire il lavoratore a mezzo della privazione dei suoi compiti, la responsabilità stessa deve essere nondimeno esclusa - oltre che nei casi in cui possa ravvisarsi una causa giustificativa del comportamento del datore di lavoro connessa all'esercizio di poteri imprenditoriali, garantiti dall'art. 41 Cost., ovvero di poteri disciplinari - anche quando l'inadempimento della prestazione derivi comunque da causa non imputabile all'obbligato, fermo restando che, ai sensi dell'art. 1218 cod. civ., l'onere della prova della sussistenza delle ipotesi ora indicate grava sul datore di lavoro, in quanto avente, per questo verso, la veste di debitore. La Cassazione ha rinviato la causa alla Corte di Appello di Torino perché accerti se possa ritenersi acquisita la prova, anche attraverso presunzioni, dei danni da demansionamento.

Legge e giustizia