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Precari Attenersi alla procedura del diritto di sciopero

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SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONE SECONDA, SENTENZA DEL 20
SETTEMBRE 2007, N. 35178


Presidente Di Iorio – Relatore Monastero
Ricorrente Arcangelo

Svolgimento del processo
Con sentenza pronunciata in data 21 novembre 2006, la Corte di appello di Catanzaro confermava la sentenza con la quale il Tribunale di Rossano, in data 3 giugno 2004, aveva condannato Pisano Graziella e Rizzati Rosetta alla pena di mesi uno di reclusione, unificando sotto il vincolo della continuazione i reati di cui agli artt. 110, 340, 633 e 639 bis cod. pen.
Le doglianze difensive dedotte nell'atto di gravame concernevano a) la punibilità delle imputate che, ad avviso della difesa, avrebbero posto in essere un comportamento costituente legittima estrinsecazione del diritto di sciopero, con conseguente applicabilità dell'esimente di cui all'art. 51 cod. pen., in riferimento a tale diritto, costituzionalmente garantito, b) la stessa configurabilità del reato di interruzione di servizio pubblico, dal momento che il corpo insegnante ed il personale amministrativo della scuola occupata erano comunque rimasti nell'edificio scolastico, impegnati in altri lavori, c) la possibile configurabilità, in estremo subordine, della fattispecie di cui agli artt. 330 e 333 cod. pen., ora abrogati e, d) l'impossibilità di configurare, nella specie, la fattispecie di cui all'art. 633 cod. pen., atteso che tale delitto postula una invasione finalizzata all'occupazione arbitraria, nel caso in questione del tutto insussistente perché le imputate facevano parte del personale scolastico ed erano in possesso delle chiavi dell'edificio.
Quanto alla applicabilità del reato di cui all'art. 340 cod. pen., sosteneva la Corte territoriale l'irrilevanza della durata dell'interruzione e l'entità del turbamento quando, come nella specie, vi era stata un'effettiva "alterazione" del normale svolgimento del servizio per un tempo apprezzabile.
Con specifico riferimento alla richiesta applicazione della scriminante di cui all'art. 51 cod. pen., la Corte territoriale riteneva necessaria la sussistenza, in capo all'agente, di un vero e proprio diritto soggettivo tale da comportare il sacrificio di tutti gli altri interessi in contrasto, nella specie del tutto mancante e, comunque, in contrasto con altri diritti costituzionalmente garantiti; a tutto voler concedere, proseguiva la Corte territoriale, si sarebbe configurata una ipotesi di abuso del diritto stesso, con conseguente esclusione della operatività dell'art. 51 cod. pen.
Riteneva, infine, la Corte territoriale configurabili anche le fattispecie di cui agli artt. 633 e 639 bis cod. pen. poiché le imputate si erano introdotte arbitrariamente nell’edificio scolastico al fine di occuparlo, e ciò doveva ritenersi sufficiente ai fini della configurabilità del reato contestato, non essendo necessaria la sussistenza di modalità violente.
Avverso tale decisione propone ricorso per cassazione l'Avv. Vincenzo Arcangelo per conto delle imputate deducendo violazione dell'art. 606 lett. e) cod. proc. pen., con riferimento a) all'art. 40 Cost., b) all'art. 340 cod. pen., c) agli artt. 633 e 639 cod. pen., d) all'art. 51, cod. pen., e) all'art. 62, numero 1, cod. pen.
Quanto al primo motivo, sostiene il difensore delle imputate che il Giudice di appello avrebbe omesso ogni valutazione in merito alla qualificazione del fatto-reato, con specifico riferimento alla condotta che, essendo finalizzata alla tutela di un diritto soggettivo proprio e costituzionalmente protetto e alla estrinsecazione del diritto di sciopero, non poteva in alcun modo integrare la fattispecie incriminatrice contestata; sarebbe infatti palese, ad avviso del ricorrente, la violazione dell'art. 40 Cost. anche perché la condotta era finalizzata esclusivamente a incidere sul processo di formazione della volontà pubblica per ottenere un contratto di lavoro a tempo indeterminato.
Inoltre, la mancanza del preavviso avrebbe potuto essere sanzionata solo amministrativamente, rappresentando l'occupazione delle scuole solo una modalità di esercizio del diritto di sciopero e l'attività amministrativa nel suo complesso non era stata turbata, avendo la direttrice scolastica fatto ritornare gli alunni a casa per scelta interna, e non in conseguenza del comportamento delle imputate.
Con il secondo motivo il difensore ricorrente sostiene che la condotta doveva essere inquadrata, sia sotto il profilo soggettivo che oggettivo nelle fattispecie incriminatici abrogate di cui agli artt. 330 e 333 cod. pen., non essendo tra l'altro configurabile un concreto pregiudizio per il servizio pubblico.
Quanto al terzo motivo, sostiene il ricorrente che le fattispecie di cui agli artt. 633 e 639 bis cod. pen., non sarebbero comunque configurabili nel caso di specie poiché da un lato la P.A. sarebbe stata a conoscenza dello stato di reale e costante agitazione sindacale delle lavoratrici, e dall'altro non sarebbe sussistita alcuna "invasione arbitraria" dell'edificio dal momento che le imputate erano in possesso delle chiavi e l'entrata nel complesso scolastico sarebbe avvenuta con modalità pacifiche.
Con il quarto motivo il ricorrente deduce che le condotte incriminate si ricollegherebbero ad un fatto costituente esercizio di un diritto costituzionalmente garantito e per tale motivo non potrebbero essere qualificate come reato; sarebbero infatti da considerarsi non punibili, oltre alle condotte principali riconducibili al diritto di sciopero, anche le condotte sussidiarie poste in essere dalle imputate, come l'occupazione scolastica, poiché, come affermato dalla stessa Corte Costituzionale, le stesse rientrerebbero nell'ambito dell'esercizio del diritto al lavoro, sotto la specie del diritto alla conservazione del posto di lavoro.
Quanto all'ultimo motivo, il ricorrente deduce la violazione dell'art. 62 n. l cod. pen.: il giudice erroneamente non avrebbe riconosciuto tale circostanza attenuante poiché l'aver posto in essere una condotta al fine di salvaguardare un posto di lavoro configura «in capo all'agente una volontà diretta ad eliminare una situazione effettivamente antisociale con obiettiva rispondenza a valori effettivamente apprezzabili dal punto di vista etico-sociale», oltre che costituzionalmente garantiti.

Motivi della decisione
Il ricorso è parzialmente fondato.
Quanto al primo e al quarto motivo che, per la comunanza dell'oggetto, possono essere decisi unitariamente, è sufficiente ricordare che l'esercizio dei diritti di cui agli artt. 17 e 21 Cost. cessa di essere legittimo quando travalichi nella lesione di altri interessi costituzionalmente garantiti, come quando si realizza la condotta di cui all'art. 340 cod. pen. con modalità di condotta che, come nella specie, esorbitano dal fisiologico esercizio di quei diritti.
Essendo palese il superamento di quei limiti - l'occupazione temporanea della scuola per un tempo apprezzabile integra senza dubbio gli estremi della fattispecie criminosa contestata - non può essere nella specie invocata la causa di non punibilità di cui all'art. 51 cod. pen.
Quanto al secondo motivo, questo collegio osserva che le imputate, pur avendo agito per motivi sindacali, hanno del tutto consapevolmente cagionato l'evento, consistente nella alterazione del normale svolgimento del servizio scolastico: e ciò integra, anche sotto il profilo soggettivo, il reato in esame.
Quanto al mancato riconoscimento dell'attenuante di cui all'art. 62, n. 1, cod. pen., è agevole osservare che i "motivi di particolare valore morale e sociale" non possono certo essere riconosciuti nel comportamento di chi commette consapevolmente un reato per indurre la pubblica amministrazione a trasformare in definitivo un contratto di lavoro a tempo parziale, con l'affermazione, peraltro del tutto infondata, che la volontà dell'illecito comportamento era quella di "eliminare una situazione effettivamente antisociale".

Il terzo motivo è, invece, fondato.
Il reato di cui all'art. 633 cod. pen., presuppone, infatti, una condotta di arbitraria invasione di terreni o edifici al fine di occuparli o di trarne altrimenti profitto.
È vero quanto afferma la Corte territoriale che la nozione di invasione non si realizza esclusivamente con il requisito della violenza, che può anche mancare, essendo sufficiente per integrare il reato l'introduzione arbitraria e cioè contra ius da parte dell'agente, in quanto privo del diritto di accesso: è altresì vero, però, che l'elemento soggettivo della fattispecie di cui all'art. 633 cod. pen. consiste nella finalità di "occupare" il bene che viene arbitrariamente invaso, finalità del tutto insussistente nella specie in cui le imputate hanno "invaso" al fine di "interrompere" o turbare la regolarità di un ufficio o di un servizio pubblico.
Le due fattispecie hanno una diversa obiettività giuridica, nella specie solo apparentemente sovrapponibile: l'occupazione arbitraria è, infatti, solo un accidens della condotta che, nella specie, era finalizzata, e del tutto pacificamente, esclusivamente all'interruzione del pubblico servizio.
A mente dell'art. 624 cod. proc. pen., diventa irrevocabile la parte della sentenza concernente l'affermazione della responsabilità in ordine al reato di cui all'art. 340 cod. pen., e gli atti vanno trasmessi alla Corte di appello di provenienza solo per la rideterminazione della pena.

PQM
La Corte Suprema di cassazione annulla senza rinvio la sentenza impugnata in ordine al reato di cui all'art. 633 cod. pen., perché il fatto non costituisce reato e dispone che gli atti siano trasmessi ad altra sezione della Corte di appello di Catanzaro per la determinazione della pena in ordine al reato di cui all’art. 340 cod. pen.; rigetta nel resto il ricorso.IL LAVORATORE DEMANSIONATO HA DIRITTO AL RISARCIMENTO DEL DANNO NON PATRIMONIALE - La prova del pregiudizio può essere data a mezzo di presunzioni (Cassazione Sezione Lavoro n. 29832 del 19 dicembre 2008, Pres. e Rel. Ianniruberto).

Giorgio B., dipendente dell'Ilva con inquadramento nella sesta categoria impiegatizia, dal 1990 al 2000 è stato tenuto in una situazione di inattività oppure adibito a mansioni di basso livello (fotocopiatura) certamente non rispondenti alla sua qualifica. Dopo avere richiesto di assegnargli mansioni adeguate, poiché l'azienda non ha a ciò provveduto, dal marzo 2000 non si è presentato in ufficio. L'azienda lo ha licenziato il 3 aprile 2000 per assenza ingiustificata. Egli ha chiesto al Tribunale di Genova di annullare il licenziamento, di ordinare all'azienda di reintegrarlo in servizio con mansioni adeguate alla sua qualifica e di condannarla al risarcimento dei danni (biologico, esistenziale, morale) prodotti dal prolungato demansionamento. Il Tribunale ha annullato il licenziamento, ordinando la richiesta reintegrazione e disponendo il risarcimento del danno a termini dell'art. 18 St. Lav. (mancata retribuzione), in quanto ha ritenuto che il lavoratore, essendo l'azienda gravemente inadempiente, aveva il diritto di non presentarsi in ufficio. La Corte d'Appello di Genova ha confermato questa decisione ed ha anche condannato la società al risarcimento del danno esistenziale in misura pari al 50% della retribuzione relativa al periodo del demansionamento, nonché del danno morale liquidato in 15.000 euro.
L'azienda ha proposto ricorso per cassazione censurando la decisione impugnata per avere affermato l'illegittimità del licenziamento, per avere ritenuto configurabile un danno morale in assenza di reato e per avere liquidato il risarcimento del danno in mancanza di prova della sua esistenza.

La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 29832 del 19 dicembre 2008, Pres. e Rel. Ianniruberto) ha rigettato il ricorso nella parte concernente il licenziamento, in quanto ha ritenuto che la Corte di Genova abbia adeguatamente motivato l'accertamento della gravità dell'inadempienza aziendale e della proporzionalità della reazione del lavoratore. Per quanto attiene al danno da demansionamento, la Corte ha rigettato la censura relativa alla configurabilità del danno morale,
mentre ha ritenuto fondata quella relativa alla mancata prova del danno. La Corte ha richiamato la recente decisione delle Sezioni Unite (n. 26972 dell'11 novembre 2008) secondo cui: il danno non patrimoniale deve essere inteso nella sua accezione più ampia di danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica, anche in assenza di reato, sempre che si tratti di interessi presi in considerazione negli specifici casi determinati dalla legge o in via di interpretazione dal parte del giudice, chiamato ad individuare la sussistenza, alla stregua della Costituzione, di uno specifico diritto inviolabile della persona.

Le Sezioni Unite - ha affermato la Corte - hanno evidentemente confermato quel principio ormai acquisito nella giurisprudenza di legittimità per il quale "il danno morale consegue alla ingiusta lesione di un interesse inerente la persona, costituzionalmente garantito e, per essere risarcito, non è soggetto al limite derivante dalla riserva di legge correlata all'art. 185 cod. pen. e non presuppone, pertanto, la qualificabilità del danno illecito come reato, giacché il rinvio ai casi in cui la legge consente la riparazione del danno non patrimoniale ben può essere riferito, dopo l'entrata in vigore della Costituzione, anche alle previsioni della stessa, ove si consideri che il riconoscimento, ivi contenuto, dei diritti inviolabili inerenti alla persona non aventi natura economica implicitamente, ma necessariamente, ne esige la tutela, ed in tal modo configura un caso determinato dalla legge, al massimo livello, di riparazione del danno non patrimoniale".

Va pertanto escluso - ha affermato la Corte - che la risarcibilità del danno morale debba essere subordinata alla ricorrenza di un fatto reato. Per quanto attiene alla liquidazione del danno - ha osservato la Cassazione - la Corte di appello, avendo accertato il demansionamento, per tale solo fatto ha liquidato somme di vario importo imputandole a titolo di danno esistenziale e morale; con tale conclusione essa, non affrontando il problema ulteriore dell'allegazione del danno, della prova della sua esistenza in concreto e del nesso causale con il denunziato demansionamento, si è posta in palese contrasto con la più recente giurisprudenza di legittimità, che, a partire da Cass. Sez. Un. 24 marzo 2006 n. 6572, ha affermato che "in tema di demansionamento e di dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno non patrimoniale, che asseritamente ne deriva - non ricorrendo automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale - non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio medesimo; mentre il risarcimento del danno biologico è subordinato all'esistenza di una lesione dell'integrità psico-fisica medicalmente accertabile, il danno esistenziale (n.d. che, a seguito di Cass. 26972/2008 non ha una sua autonomia concettuale, ma è un elemento da considerare, ove ricorra il presupposto della sua "serietà", nel danno non patrimoniale) - da intendere come ogni pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul fare areddittuale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelta di vita diverse quanto all'espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno - va dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall'ordinamento, assumendo peraltro precipuo rilievo la prova per presunzioni, per cui dalla complessiva valutazione di precisi elementi dedotti (caratteristiche, durata, gravità, conoscibilità all'interno ed all'esterno del luogo di lavoro dell'operata dequalificazione, frustrazione di precisate e ragionevoli aspettative di progressione professionale, eventuali reazioni poste in essere nei confronti del datore comprovanti l'avvenuta lesione dell'interesse relazionale, effetti negativi dispiegati nelle abitudini di vita del soggetto) - il cui artificioso isolamento si risolverebbe in una lacuna del procedimento logico - si possa, attraverso un prudente apprezzamento, coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all'esistenza del danno, facendo ricorso, ai sensi dell'art. 115 cod. proc. civ., a quelle nozioni generali derivanti dall'esperienza, delle quali ci si serve nel ragionamento presuntivo e nella valutazione delle prove". La tesi della necessità di allegazione e prova - ha ricordato la Corte - è stata seguita dalla
successiva giurisprudenza di legittimità (Cass. 2 agosto 2006 n. 17564 e puntualmente richiamata e condivisa dalla richiamata Cass. Sez. Un. 26972/2008) e significativamente da Cass. 14 luglio 2006 n. 14729, la quale, in particolare, ha ribadito che il lavoratore ha diritto a svolgere le mansioni per le quali è stato assunto ovvero equivalenti alle ultime effettivamente svolte - e, quindi, a fortiori il diritto a non essere lasciato in condizioni di forzata inattività e senza
assegnazione di compiti, ancorché senza conseguenze sulla retribuzione: e, dunque, non solo il dovere, ma anche il diritto all'esecuzione della propria prestazione lavorativa - cui il datore di lavoro ha il correlato obbligo di adibirlo - costituendo il lavoro non solo un mezzo di guadagno, ma anche un mezzo di estrinsecazione della personalità di ciascun cittadino. La violazione di tale diritto del lavoratore all'esecuzione della propria prestazione - ha affermato la Corte - è fonte di responsabilità risarcitoria per il datore di lavoro; responsabilità che, peraltro, derivando dall'inadempimento di un'obbligazione, resta pienamente soggetta alle regole generali in materia di responsabilità contrattuale: sicché, se essa prescinde da uno specifico intento di declassare o svilire il lavoratore a mezzo della privazione dei suoi compiti, la responsabilità stessa deve essere nondimeno esclusa - oltre che nei casi in cui possa ravvisarsi una causa giustificativa del comportamento del datore di lavoro connessa all'esercizio di poteri imprenditoriali, garantiti dall'art. 41 Cost., ovvero di poteri disciplinari - anche quando l'inadempimento della prestazione derivi comunque da causa non imputabile all'obbligato, fermo restando che, ai sensi dell'art. 1218 cod. civ., l'onere della prova della sussistenza delle ipotesi ora indicate grava sul datore di lavoro, in quanto avente, per questo verso, la veste di debitore. La Cassazione ha rinviato la causa alla Corte di Appello di Torino perché accerti se possa ritenersi acquisita la prova, anche attraverso presunzioni, dei danni da demansionamento.

Legge e giustizia