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I comportamenti processuali aventi Finalità dilatorie.

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I comportamenti processuali aventi Finalità

Dilatorie possono essere sanzionati con

la condannaal risarcimento del danno

 

 

Con liquidazione equitativa

(Cassazione Sezione Lavoro n. 24645 del 27 novembre 2007, Pres. Mattone, Rel. Vidiri).

 

Gionata D. ha promosso nel 2003 davanti al Tribunale di Roma una controversia di lavoro nei confronti della s.r.l. Pubblicità Turistica. Questa si è costituita in giudizio, davanti al giudice designato della Sezione Lavoro, proponendo domanda riconvenzionale per crediti che essa aveva peraltro già azionato in un giudizio avviato nel 2001, con rito ordinario e pendente davanti alla nona sezione civile del Tribunale di Roma. Il giudice del lavoro, rilevato che la domanda riconvenzionale non concerneva il rapporto di lavoro ed era identica a quella in precedenza proposta dalla società con rito ordinario ha emesso un’ordinanza del seguente tenore: “dispone che a cura della cancelleria si provveda alla formazione di un autonomo fascicolo relativo alla domanda riconvenzionale della s.r.l. Pubblicità Turistica, estraendo copia degli atti introduttivi del giudizio (ricorso, memoria di costituzione, memoria di replica alla riconvenzionale) e del presente provvedimento; dispone la trasmissione di detto fascicolo al presidente del Tribunale per l’assegnazione della causa alle sezioni ordinarie”.

 

Contro questo provvedimento la s.r.l. Pubblicità Turistica ha proposto ricorso per cassazione, sostenendo che la controversia relativa alla sua domanda riconvenzionale andava assoggettata al rito del lavoro e che l’ordinanza impugnata era lesiva del suo diritto di difesa e del principio del contraddittorio. Il Giudice del lavoro, su richiesta della società, ha sospeso il giudizio in attesa della decisione della Suprema Corte. Gionata D. ha resistito al ricorso per cassazione proponendo un controricorso con il quale ha chiesto la condanna della società per responsabilità aggravata in base all’art. 96 cod. proc. civ., secondo cui, “il giudice può condannare al risarcimento dei danni chi ha agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave”. A sostegno di tale domanda il controricorrente ha rilevato che il ricorso per cassazione, privo di ogni fondamento giuridico, era stato proposto solo ed esclusivamente per fini dilatori”.

 

La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 24645 del 27 novembre 2007, Pres. Mattone, Rel. Vidiri) ha dichiarato il ricorso inammissibile richiamando la sua costante giurisprudenza secondo cui i provvedimenti in materia di riunione hanno natura ordinatoria, non sono impugnabili davanti ad altri uffici e sono insindacabili in sede di legittimità.

 

Il ricorso in esame – ha osservato la Cassazione – non tiene conto di principi giurisprudenziali consolidati e mai contraddetti, rispetto ai quali non è stata mossa, in sede dottrinaria, alcuna critica.

 

La Corte ha preso quindi in esame la domanda di risarcimento del danno avanzata dal ricorrente in base all’art. 96 cod. proc. civ. in relazione alla finalità dilatoria del ricorso. Essa ha osservato che in passato l’art. 96 cod. proc. civ. ha trovato scarsa applicazione per la difficoltà di provare sia l’elemento soggettivo dell’illecito (malafede o colpa grave) sia l’elemento oggettivo (entità del danno sofferto). Deve peraltro ritenersi – ha affermato la Corte – che la responsabilità aggravata possa essere fatta valere a fronte di tutte quelle condotte processuali che, improntate a mere finalità dilatorie, comportino pregiudizievoli ricadute sui tempi del processo determinando nel contempo un danno non soltanto patrimoniale, da liquidarsi in forma equitativa dal giudice, secondo i parametri dell’illecito extracontrattuale; deve in proposito tenersi presente che le innovazioni normative (cfr. legge 24 marzo 2001 n. 89, cd. legge Pinto), anche a livello costituzionale (cfr. art. 111 Cost., comma secondo, come introdotto dalla legge costituzionale 23 novembre 1999 n. 2), regolanti i tempi del processo inducono a ritenere che possa ormai ritenersi acquisito nel patrimonio di ciascuno cittadino il diritto a vedersi risarciti i danni derivanti da ingiustificati ritardi nella definizione del giudizio scaturenti eziologicamente da condotte dilatorie, da inquadrarsi tra gli illeciti extracontrattuali.

 

Non è necessario ai fini di ritenersi sussistente la responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c. – ha affermato la Corte – la dimostrazione di uno specifico danno per il ritardo provocato dal gravame inammissibilmente esperito sulla decisione della causa, potendo desumersi detto danno da nozioni di comune esperienza e dal pregiudizio subito di per sé dalla parte resistente per essere stata costretta a contrastare un’ingiustificata iniziativa dell’avversario; questa soluzione trova nell’attuale assetto ordinamentale un rassicurante supporto sia nella regola della “ragionevole durata del processo”, da considerarsi ora un principio su cui misurare la tenuta e la portata delle singole norme

processuali, sia nella comune consapevolezza del valore, anche in termini economici e sociali, che assume allo stato il principio della celerità del giudizio.

 

Pertanto la Suprema Corte ha accolto la domanda di risarcimento del danno avanzata da Gionata D., enunciando il seguente principio di diritto:

“L’accoglimento della domanda di condanna al risarcimento del danno ex art. 96, comma 1, c.p.c., presuppone l’accertamento sia dell’elemento soggettivo (malafede o colpa grave) sia dell’elemento oggettivo (entità del danno sofferto). Il primo presupposto, per concretizzarsi nella conoscenza della infondatezza domanda e delle tesi sostenute ovvero nel difetto della normale diligenza per l’acquisizione di detta conoscenza, è ravvisabile in tutti quei casi in cui venga proposto – contrariamente ad un costante, consolidato e mai smentito indirizzo giurisprudenziale – ricorso per cassazione avverso provvedimenti di natura ordinatoria, quali quelli emessi ex art. 273 e 274 c.p.c..

 

Il secondo presupposto richiede, invece, l’esistenza di un danno e la prova da parte dell’istante sia dell’”an” che del “quantum debeatur”; il che non osta però a che l’interessato possa dedurre a sostegno della sua domanda condotte processuali dilatorie o defatigatorie della controparte, potendosi desumere il danno subito da nozioni di comune esperienza anche alla stregua del principio, ora costituzionalizzato, della “ragionevole durata del processo” e della legge 24 marzo 2001 n. 89 (cd. legge Pinto), secondo cui, nella normalità dei casi e secondo l’id quod plerumque accidit, ingiustificate condotte processuali, oltre a danni patrimoniali (quali quelli di essere costretti a contrastare una ingiustificata iniziativa dell’avversario sovente in una sede diversa da quella voluta dal legislatore e per di più non compensata sul piano strettamente economico dal rimborso delle spese ed onorari liquidabili secondo tariffe che non concernono il rapporto tra parte e cliente), causano ex se anche danni di natura psicologica, che per non essere agevolmente quantificabili, vanno liquidati equitativamente sulla base degli elementi in concreto desumibili dagli atti di causa”.