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Se non si ottempera al reintegro, danno patrimoniale

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PER LA MANCATA ESECUZIONE DELL'ORDINE DI REINTEGRAZIONE IL LAVORATORE LICENZIATO

PUO' CHIEDERE IL RISARCIMENTO DEI DANNI ULTERIORI

Anche non patrimoniali (Cassazione Sezione Lavoro n. 9073 del 15 aprile 2013, Pres. De Renzis, Rel. Bronzini).

Giuseppe B., medico, ha impugnato davanti al Tribunale di Como il licenziamento intimatogli dalla s.p.a. Italia Hospital. Il Tribunale ha annullato il licenziamento ordinando la reintegrazione nel posto di lavoro e condannando l'azienda al risarcimento del danno in misura pari alla retribuzione relativa al periodo dal recesso alla reintegrazione. L'azienda non ha reintegrato il medico nel posto di lavoro e si è limitata a corrispondergli la retribuzione, nonostante che la decisione del Tribunale sia stata confermata nei successivi gradi del giudizio. Il medico si è nuovamente rivolto al Tribunale di Como, chiedendo la condanna dell'azienda al risarcimento degli ulteriori danni (alla professionalità, per perdita di chances, alla salute, morale ed esistenziale) derivatigli dalla mancata reintegrazione. L'azienda si è difesa sostenendo di avere adempiuto ai suoi obblighi pagando la retribuzione nel periodo successivo all'ordine di reintegra.

Il Tribunale di Como ha rigettato la domanda.

Questa decisione è stata riformata in grado di appello dalla Corte di Milano che ha condannato l'azienda al pagamento di 35.000 euro per danno patrimoniale in relazione all'indennità di pronta disponibilità, ore notturne e festive ed alle maggiorazioni per straordinari che il medico avrebbe percepito se fosse stato tempestivamente reintegrato fino al momento del pensionamento svolgendo le ordinarie mansioni previste contrattualmente. La Corte ha inoltre condannato l'azienda al risarcimento del danno non patrimoniale in considerazione delle ripercussioni negative verificatesi sulla professionalità e sulla personalità del lavoratore, determinandolo in ragione del 20% della retribuzione.

L'azienda ha proposto ricorso per cassazione censurando la decisione impugnata per vizi di motivazione e violazione di legge.

La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 9073 del 15 aprile 2013, Pres. De Renzis, Rel. Bronzini) ha rigettato il ricorso richiamando la sua giurisprudenza secondo cui nel regime di tutela reale ex art. 18 L. n. 300 del 1970 avverso i licenziamenti illegittimi, la predeterminazione legale del danno in favore del lavoratore (con riferimento alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento a quello della reintegrazione) non esclude che il lavoratore possa chiedere il risarcimento del danno ulteriore (nel caso, alla professionalità) che gli sia derivato dal ritardo della reintegra e che il Giudice, in presenza della relativa prova - il cui onere incombe sul lavoratore ma che, in presenza di precise allegazioni, può essere soddisfatto mediante ricorso alla prova presuntiva - possa liquidarlo equitativamente. E' lo stesso comportamento del datore di lavoro, quando non ottempera con immediatezza all'ordine di reintegrazione, che lo espone ad ulteriori conseguenze sul piano risarcitorio facilmente evitabili attraverso un pronto adempimento del provvedimento di reintegrazione nel posto di lavoro; non vi è pertanto alcuna duplicazione del risarcimento già effettuato attraverso la corresponsione delle retribuzioni dovute, in quanto l'ulteriore danno è strettamente collegato ad un comportamento omissivo datoriale solo eventuale, così come l'onere della prova del danno è a carico del lavoratore. L'interpretazione qui seguita appare senz'altro preferibile in quanto diretta, nel complesso, ad evitare che un comportamento illegittimo - come un licenziamento non assistito né da giusta causa né da giustificato motivo - possa generare una situazione di ulteriore mortificazione e compromissione della dignità di reinserirsi prontamente nel mondo lavorativo e di dare il proprio contributo produttivo al benessere collettivo, con l'evidente  rischio anche di un logoramento della professionalità acquisita.

Circa il danno patrimoniale - ha rilevato la Cassazione - la Corte territoriale ha osservato che se l'ordine di reintegrazione fosse stato prontamente ottemperato, Giuseppe B. avrebbe, svolgendo le ordinarie mansioni di lavoro, conseguito i compensi indicati per indennità di disponibilità, indennità notturna, indennità festiva, maggiorazioni per straordinario, compensi che sono stati calcolati confrontando gli statini relativi al periodo in cui Giuseppe B. era in servizio con il periodo successivo; si tratta - ha affermato la Cassazione - di una motivazione congrua e logicamente coerente e correlata a dati obiettivi. Discorso analogo - ha rilevato la Cassazione - si deve fare in ordine al danno non patrimoniale: la Corte territoriale ha richiamato una serie di elementi che nel loro complesso hanno determinato - in conseguenza della mancata reintegrazione del posto di lavoro - una lesione "di interessi inerenti la persona, non connotati a rilevanza economica, ma meritevoli di tutela anche per la loro rilevanza costituzionale" che è stata complessivamente valutata onde evitare una duplicazione risarcitoria; la Corte territoriale ha ricordato che Giuseppe B. è stato licenziato all'età di 58 anni e quindi in una fascia di età nella quale è notoriamente difficile reimpostare la propria carriera, che è stato privato nonostante l'ordine di reintegra (non eseguita per ben sei anni dal momento del recesso del 2002 a quello del pensionamento nel 2008, nonostante Giuseppe B. si fosse presentato più volte in Ospedale chiedendo di lavorare) della possibilità di operare nella struttura medica nella quale si era stabilmente inserito, che la notizia del licenziamento certamente aveva fatto il giro degli ambienti medici e ospedalieri, che secondo le norme di ordinaria esperienza il recesso lo aveva sicuramente pregiudicato impedendogli di proseguire in modo lineare nel processo di aggiornamento e nell'attività chirurgica, che lo stato di forzata inattività aveva procurato un'indubbia situazione di stress e di perdita di fiducia come attestato dalla documentazione medica e dalle relazioni dei medici curanti. Questo complesso di ripercussioni negative su vari fronti e profili - ha osservato la Cassazione - ha determinato un danno non patrimoniale (valutato come detto nel suo complesso) rapportabile a quello subito dal lavoratore che subisce una totale e forzata inattività per colpa del datore di lavoro e che è stato liquidato - tenuto conto anche della giurisprudenza formatasi in ordine a quest'ultima situazione - nella misura del 20% della retribuzione base.