Licenziamenti Illeggittimi. Reintegro
SENTENZA Cassazione Civile Sent. n. 15093 del 26-06-2009
Svolgimento del processo
C.G. e R.C. impugnarono avanti al Tribunale di Caltanissetta i Licenziamenti loro intimati dalla Meccanica Riesi srl il (OMISSIS), chiedendo la declaratoria della loro inefficacia o nullità, nonchè dell'inadempimento della parte datoriale al verbale di accordo sindacale del 28.2.1996, che aveva previsto il loro rientro in servizio entro il 17.9.2000 fino alla data di conseguimento della pensione o di anzianità o di vecchiaia, e alle statuizioni della precedente sentenza inter partes resa dallo stesso Tribunale.
Il Giudice adito accolse la domanda, ritenendo la parte datoriale obbligata a reintegrare i lavoratori e a tenerli in servizio fino a maturazione dei requisiti pensionistici.
La Corte d'Appello di Caltanissetta, con sentenza del 25.1 - 22.3.2006, rigettò l'appello proposto dalla Meccanica Riesi s.r.l., confermando la sentenza di prime cure, osservando, con percorso argomentativo parzialmente difforme, quanto segue:
- andava rigettata l'eccezione di giudicato esterno svolta con riferimento alla pronuncia resa inter partes dal Tribunale di Caltanissetta nel precedente giudizio;
- il licenziamento intimato doveva qualificarsi come licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo;
- la parte datoriale non aveva fornito la prova delle ragioni tecniche, produttive e organizzative che avrebbero giustificato la risoluzione del rapporto.
- era condivisibile la considerazione del primo Giudice secondo cui l'accordo sindacale del 28.2.1996 aveva garantito il rientro dei lavoratori in mobilità fino al conseguimento dei requisiti pensionistici;
- doveva ritenersi che la riassunzione del 10.7.2000 fosse stata posta in essere con finalità elusive della pronuncia giudiziaria intervenuta fra le parti, con conseguente illegittimità anche del successivo licenziamento, da ritenersi illecito per illiceità del motivo e, pertanto, tamquam non esset;
- era quindi condivisibile la statuizione di prime cure di condanna della Società alla reintegra dei lavoratori e al pagamento delle retribuzioni maturate dalla data del licenziamento, ancorchè tale pronuncia non fosse da ritenersi applicativa della L. 300 del 1970 art. 18 ma conseguenza della ritenuta invalidità del licenziamento e della sua inidoneità a risolvere il rapporto di lavoro.
Avverso l'anzidetta sentenza della Corte territoriale, la Meccanica Riesi s.r.l., in liquidazione, ha proposto ricorso per cassazione fondato su quattro motivi.
Gli intimati C.G. e R.C. hanno resistito con controricorso, proponendo ricorso incidentale condizionato fondato su un unico motivo.
Le parti hanno depositato memorie.
Motivi della decisione
1. Preliminarmente i ricorsi vanno riuniti siccome proposti avverso la medesima sentenza (art. 335 c.p.c.).
2. Con il primo motivo la ricorrente principale lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 2909 c.c. e art. 324 c.p.c. (art. 360 c.p.c., comma 1 e n° 3), deducendo che:
- il bene della vita fatto valere nel precedente giudizio inter partes era quello di interpretare il verbale di accordo aziendale del 28.2.1996 e, in quel giudizio, tale interpretazione era stata resa nel senso che detto accordo obbligava la parte datoriale a far rientrare i lavoratori entro i sei mesi successivi alla fine della mobilità, senza fissare (sotto il profilo del deducibile) la durata del rientro;
- tale interpretazione era passata in cosa giudicata e, come tale, copriva il dedotto e il deducibile;
- nel presente giudizio non avrebbe quindi potuto chiedersi e darsi una ulteriore pronuncia sul contenuto del ridetto accordo.
2.1 Osserva la Corte che, come risulta dallo stesso ricorso, la domanda svolta nel precedente giudizio inter partes riguardava unicamente l'accertamento dell'inadempienza datoriale al verbale di accordo aziendale del 28.2.2006 e la richiesta di immediata riassunzione, con condanna della datrice di lavoro alla corresponsione del trattamento economico e previdenziale spettante dal 17.9.1998 all'effettiva riassunzione; il Giudice adito, in conformità al petitum e con pronuncia poi confermata in sede di appello e passata in giudicato, ritenuta la configurabilità di una valida clausola di rientro, condannò l'odierna ricorrente alla reintegrazione dei lavoratori nel posto di lavoro e al risarcimento dei danni in misura corrispondente alle retribuzioni loro spettanti fino alla data della reintegra.
In quella sede, pertanto, non venne fatta questione del termine fino al quale sussisteva l'obbligo contrattuale del datore di lavoro di garantire la permanenza nel posto di lavoro, questione che, invece, è stata posta nel presente giudizio.
Secondo il condiviso orientamento della giurisprudenza di legittimità (cfr, Cass., nn. 9544/2008; 28719/2008), il giudicato, formatosi con la sentenza intervenuta tra le parti, copre non solo il dedotto ma anche il deducibile in relazione al medesimo oggetto, e cioè non soltanto le ragioni giuridiche e di fatto fatte valere in giudizio (cioè il giudicato esplicito), ma anche tutte quelle che, sebbene non dedotte specificamente, costituiscono precedenti logici essenziali e necessari della pronuncia (giudicato implicito).
E' di piena evidenza che la determinazione - in via di interpretazione del ridetto accordo aziendale - del giorno fino al quale i lavoratori avrebbero avuto diritto di rimanere, dopo il rientro, nel posto di lavoro non costituiva affatto un precedente logico essenziale e necessario della pronuncia di cui qui si invoca il giudicato, con la conseguenza che su tale questione il giudicato (implicito) non si è formato e la stessa ben poteva venire introdotta nella presente controversia ed essere quindi oggetto di specifica pronuncia.
Il primo motivo di ricorso principale va dunque disatteso.
3. Con il secondo motivo, svolto in via subordinata, la ricorrente principale lamenta vizio di motivazione, con riferimento agli artt. 1362, 1363 e 1366 c.c. (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), deducendo l'erroneità dell'interpretazione data dal Giudice di primo grado, e condivisa dalla Corte territoriale, al contenuto del predetto accordo aziendale, laddove era stato ritenuto che tale accordo doveva garantire anche la stabilità nel posto di lavoro fino al raggiungimento della pensione di vecchiaia o di anzianità. 3.1 La sentenza impugnata, ancorché in forma parentetica, afferma espressamente di condividere la considerazione del Giudice di primo grado secondo cui l'accordo sindacale del 28.2.1996 aveva garantito il rientro dei lavoratori messi in mobilità fino al conseguimento tout court dei requisiti richiesti per la pensione di anzianità o di vecchiaia. Secondo il condiviso orientamento di questa Corte, nell'ipotesi in cui la sentenza impugnata sia motivata mediante rinvio alta sentenza di primo grado, il vizio di omessa o insufficiente motivazione - deducibile in sede di legittimità ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 - sussiste solo se, con il rinvio, sia stato omesso l'esame di uno specifico elemento di segno contrario alla prima decisione, potenzialmente idoneo a condurre ad una diversa decisione, e non anche per effetto della sola tecnica del rinvio, essendo la sentenza di primo grado richiamata dal secondo giudice divenuta parte integrante della propria decisione (cfr. Cass., n. 12129/2003).
3.2 La giurisprudenza di legittimità è consolidata nel ritenere che l'interpretazione di un atto negoziale è tipico accertamento in fatto riservato al giudice di merito, incensurabile in sede di legittimità, se non nell'ipotesi di violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale, di cui all'art. 1362 e segg. c.c., o di motivazione inadeguata, ovverosia non idonea a consentire la ricostruzione dell'iter logico seguito per giungere alla decisione;
pertanto onde far valere una violazione sotto il primo profilo, occorre non solo fare puntuale riferimento alle regole legali d'interpretazione, mediante specifica indicazione dei canoni asserita violatamene violati ed ai principi in essi contenuti, ma occorre, altresì, precisare in qua modo e con quali considerazioni il giudice del merito se ne sia discostato; con l'ulteriore conseguenza dell'inammissibilità del motivo di ricorso che si fondi sull'asserita violazione delle norme ermeneutiche o del vizio di motivazione e si risolva, in realtà, nella proposta di una interpretazione diversa (cfr, ex plurimis, Cass., nn. 23569/2007; 22536/2007; 7500/2007).
Il Giudice di primo grado - e di riflesso, quindi, la sentenza impugnata - ha fondato la propria interpretazione sul tenore letterale della pattuizione, individuando al contempo la comune intenzione delle parti nell'impegno di protrarre comunque il rapporto, nonostante il ricordato "attuale stato di crisi", senza tenere conto delle "... condizioni di effettivo fabbisogno della società", e giungendo quindi alla conclusione che l'accordo stesso era volto a far conseguire ai lavoratori il trattamento di quiescenza, nel mentre, diversamente opinando, la pattuizione sarebbe rimasta priva della sua causa concreta, potendo l'Azienda, in ogni momento, sciogliersi dal vincolo.
Con tale motivazione è stato dunque data applicazione al principio secondo cui i canoni strettamente interpretativi sono prevalenti su quelli interpretativi - integrativi (cfr, ex plurimis, Cass., n. 27021/2008) e, al contempo, viene consentito agevolmente di comprendere l'iter logico seguito.
3.3 Esclusa pertanto la sussistenza del vizio motivazionale e rilevata la correttezza giuridica del ricorso al canone prioritario di cui all’art. 1362 c.c., deve ritenersi inammissibile in questa sede la censura svolta, siccome consistente nella mera contrapposizione di un'interpretazione ritenuta più confacente alle aspettative della parte o più persuasiva di quella accolta nella sentenza impugnata (cfr, ex plurimis, Cass., n. 14850/2004).
Anche il secondo motivo di ricorso principale non può pertanto trovare accoglimento.
4.1 Con il terzo motivo la ricorrente principale denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1324, 1334, 1343, 1344, 1345 e 1348 c.c., L. n. 604 del 1966 artt 3, 5 e 8, nonché vizio di motivazione (art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5), sotto due profili:
- la motivazione della sentenza impugnata doveva ritenersi carente laddove aveva considerato non provato il giustificato motivo oggettivo, senza avere valutato il verbale di accordo in sede sindacale del 21.2.2000, una testimonianza assunta e il libro matricola;
- il ritenuto inadempimento contrattuale (dell'accordo sindacale 28.2.1996) non poteva far ritenere la nullità del licenziamento, poichèil negozio (nel caso di specie unilaterale) può dirsi nullo se viola norme imperative, ovvero viene posto in frode alla legge, ma non in frode ad un contratto (con la conseguenza che l'intervenuto licenziamento poteva al più comportare conseguenze risarcitorie).
4.2 In ordine al primo profilo del terzo mezzo deve rilevarsi che la Corte territoriale ha espressamente osservato che la Società appellante non aveva fornito la prova delle ragioni tecniche, produttive e organizzative che avrebbero giustificato la risoluzione dei rapporti di lavoro e che, a tale fine, non sarebbe stato sufficiente il richiamo alle ragioni produttive che avevano determinato l'avvio della procedura di mobilità del 1996, nè il richiamo all'ulteriore procedura di mobilità che sarebbe stata avviata nell'anno 2000, atteso che il licenziamento costituiva un provvedimento che era stato configurato come un provvedimento di recesso autonomo, svincolato dalle precedenti traversie giudiziarie.
Al suddetto riguardo la Corte territoriale ha espressamente precisato che della richiamata ulteriore procedura di mobilità del 2000 non risultava "nessuna traccia di prova, neppure documentale". 4.2 Tale essendo il contenuto della motivazione adottata deve ritenersi l'inammissibilità della doglianza poichè: - la Corte ha congruamente motivato sul perchè le ragioni che avevano determinato l'avvio delle precedenti procedure di mobilità non avrebbero potuto fondare anche il licenziamento per giustificato motivo oggettivo;
- la ricorrente, a fronte dell'espressa indicazione dell'assenza di qualsivoglia traccia di prova, anche documentale, in ordine alla procedura di mobilità del 2000 (a cui si riferisce l'accordo di cui si lamenta la mancata considerazione), per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione avrebbe dovuto non soltanto riportare il contenuto del documento, ma anche specificare quando e con quale atto lo stesso sarebbe stato ritualmente acquisito al giudizio (cfr, ex plurimis, Cass., nn. 6972/2005; 7610/2006), non potendo al riguardo ritenersi sufficiente l'affermazione della sua specifica indicazione quale documento prodotto in giudizio;
- considerazioni sostanzialmente analoghe valgono per il libro matricola;
- la testimonianza riportata, vertendo soltanto sull'indicazione numerica dell'organico aziendale, è priva del carattere di decisività avuto riguardo all'iter motivazionale seguito.
4.3 In ordine al secondo profilo del terzo mezzo deve rilevarsi che la Corte territoriale ha espressamente rilevato che il ridottissimo scarto temporale intercorrente tra la definizione del primo giudizio e la data del secondo licenziamento autorizzava a ritenere che la riassunzione del 10.7.2000 fosse stata posta in essere "con finalità elusive della pronunzia giudiziaria già intervenuta tra le parti, con la conseguenza di ritenere, in tale ipotesi, illegittimo anche il licenziamento di poco successivo", soggiungendo che la successione cronologica degli avvenimenti esaminati, il tenore letterale dell'atto in questione e gli evidenziati profili di contraddizione "impongono di ritenere l'illiceità del licenziamento ... per illiceità del motivo"; ha rilevato infine che detto licenziamento si configurava come manifestazione di volontà fraudolenta della società di eludere i vincoli nascenti dal citato accordo sindacale del 28.2.1996, "il cui inadempimento era già stato accertato con sentenza del 16.5.00".
Risulta dunque evidente che il carattere fraudolento del licenziamento è stato ricollegato non già, sic et simpliciter, ad un inadempimento contrattuale, bensì all'elusione della già intervenuta pronuncia giudiziaria, che tale inadempimento aveva accertato.
4.4 Dal che discende che la censura, così come svolta, rende privo di rilievo l'assunto secondo cui il negozio non poteva ritenersi nudo siccome attuato in frode ad un contratto, risultando invece che l'intento fraudolento, nella ricostruzione resa dalla Corte, si è attuato con riguardo alle norme imperative, di ordine pubblico, che assicurano la necessaria osservanza degli obblighi derivanti dal giudicato civile.
Al contempo, osservato che, secondo il condiviso orientamento di questa Corte, in virtù del richiamo operato dall’art. 1324 c.c., la causa illecita e il motivo illecito rilevano ai fini della nullità anche negli atti unilaterali e che il relativo accertamento è rimesso al giudice di merito e non è censurabile in sede di legittimità se non per vizi di motivazione (cfr, Cass, nn. 11191/2002; 1843/1995), la doglianza si appalesa inidonea a scalfire le ragioni che hanno condotto la Corte territoriale a ritenere la nullità dell'impugnato licenziamento.
5. Con il quarto motivo la ricorrente principale denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1453, 1223, 1227, 2967 c.c. e art. 112, 115 e 116 c.p.c. (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), deducendo che:
- ove ritenuto che il licenziamento costituisse un comportamento determinante un inadempimento al verbale di accordo sindacale del 28.2.1996, ciò avrebbe dovuto comportare l'applicazione della disciplina in materia di responsabilità contrattuale anche sotto il profilo risarcitorio; qualora, invece, fosse ritenuta l'invalidità del licenziamento, si sarebbero determinati solo gli effetti ripristinatori propri della declaratoria di nullità del negozio, senza la possibilità di individuare alcun danno da inadempimento, nè l'automatica determinazione dello stesso, stante la riconosciuta inapplicabilità della L. n. 300 del 1970 art. 18;
- la Corte territoriale aveva dichiarato la nullità del licenziamento per illiceità dei motivi in violazione del disposto dell’art. 112 c.p.c. non essendo stata svolta domanda in tal senso.
5.1 In ordine al secondo profilo del quarto mezzo (logicamente prioritario rispetto al primo profilo), va osservato che, secondo il condiviso orientamento di questa Corte, il principio della rilevabilità d'ufficio della nullità dell'atto va necessariamente coordinato con il principio dispositivo e con quello della corrispondenza tra chiesto e pronunciato e trova applicazione soltanto quando la nullità si ponga come ragione di rigetto della pretesa attore (ad esempio: di esecuzione di un atto nullo), non anche quando sia invece la parte a chiedere la dichiarazione di invalidità di un atto ad essa pregiudizievole, dovendo in tal caso la pronuncia del giudice essere circoscritta alle ragioni di illegittimità denunciate dall'interessato, senza potersi fondare su elementi rilevati d'ufficio o tardivamente indicati, giacché in tal caso l'invalidità dell'atto si pone come elemento costitutivo della domanda attorea (cfr, ex plurimis, Cass., n. 20548/2004; 435/2003).
Nel caso che ne occupa, tuttavia, le stesse conclusioni del ricorso introduttivo contengono la richiesta (anche) della declaratoria di nullità dei licenziamenti impugnati, l'evidenziazione della insussistenza del giustificato motivo oggettivo e la richiesta della declaratoria dell'inadempimento al verbale di accordo sindacale del 28.2.1996 ed alle statuizioni della sentenza già emessa fra le parti nel precedente giudizio; il tutto in coerenza con la parte espositiva del ricorso (che questa Corte ha potuto direttamente esaminare essendo stato denunciato un error in procedendo), ove, fra l'altro, venne espressamente dedotto che il "... licenziamento deve considerarsi nullo ed inefficace, e/o annullabile perchè comminato in dispregio a quanto statuito con sentenza del Giudice del Lavoro del 16/05/2000, che solo formalmente è stata eseguita dalla Società resistente, considerando il breve lasso di tempo tra il rientro ed i licenziamenti.
Pertanto la declaratoria di nullità del licenziamento per illiceità del motivo è avvenuta nell'ambito del complesso delle pronunce richieste, senza violazione, quindi, del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato.
5.2 In ordine al primo profilo del quarto mezzo va anzitutto rilevato che, per le ragioni anzidetto, deve escludersi che il licenziamento abbia costituito un mero inadempimento contrattuale, essendone stata ritenuta la nullità per illiceità del motivo (nei termini già precisati).
Trova dunque applicazione nella fattispecie il principio (già affermato dalla giurisprudenza di legittimità: cfr, Cass., nn. 18537/2004; 7176/2003; 6396/1998, in motivazione), secondo cui il licenziamento nullo è insuscettibile di produrre qualsiasi effetto, con la conseguenza che al lavoratore licenziato, indipendentemente dai requisiti dimensionali dell'impresa, spettano per intero, in base alle regole di diritto comune (art. 1418 c.c.), le retribuzioni maturate in forza del rapporto di lavoro mai interrotto e che la parte datoriale va condannata a riammetterlo in servizio e a versare i contributi previdenziali e assistenziali dal momento del recesso.
Anche la doglianza all'esame risulta dunque infondata.
6. In forza delle considerazione che precedono il ricorso principale va pertanto rigettato, restando assorbito il ricorso incidentale condizionato (vertente sul preteso vizio di motivazione in ordine alle domande formulate con l'appello incidentale, non esaminate perché ritenute implicitamente assorbite).
Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte riunisce i ricorsi, rigetta quello principale, dichiara assorbito quello incidentale e condanna la ricorrente principale alla rifusione delle spese, che liquida in Euro 20.00, oltre ad Euro 3.000.00 (tremila) per onorari oltre spese generali, IVA e CPA come per legge.
Così deciso in Roma, il 14 maggio 2009.
Depositato in Cancelleria il 26 giugno 2009