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IL PRINCIPIO DELLA PARITA' DI TRATTAMENTO NEL PUBBLICO IMPIEGO

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IL PRINCIPIO DELLA PARITA' DI TRATTAMENTO NEL PUBBLICO IMPIEGO NON PRECLUDE LE DIFFERENZIAZIONI OPERATE DAI CONTRATTI COLLETTIVI

In ragione di specifiche situazioni (Cassazione Sezione Lavoro n. 6842 del 24 marzo 2014, Pres. Vidiri, Rel. Marotta).

Cosimo P. ed altri dipendenti del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti si sono rivolti al Tribunale di Roma per ottenere il pagamento di differenze di retribuzione a titolo di "indennità di amministrazione", in base al principio di parità di trattamento previsto per i pubblici impiegati dall'art. 45 comma 2 del D.lgs. n. 165/2001.

Essi hanno fatto presente che tale indennità era stata per loro determinata in misura inferiore a quella attribuita al personale, di pari inquadramento, proveniente dall'ex direzione generale della motorizzazione civile. Il Ministero si è difeso facendo presente di avere applicato quanto disposto dai contratti collettivi 1998-2001 e 2002-2005.

Il Tribunale ha accolto la domanda condannando l'Amministrazione a pagare le differenze retributive.

In grado di appello la Corte di Roma ha confermato la decisione del Tribunale affermando che anche alla luce del principio di parità di trattamento fissato nel pubblico impiego dall'art. 45, comma 2, del D.lgs. n. 165/2001, i lavoratori avessero diritto a percepire l'indennità di amministrazione in misura pari a quella percepita dai colleghi in pari grado e funzioni. Il Ministero ha proposto ricorso per cassazione censurando la decisione della Corte romana per violazione di legge.

La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 6842 del 24 marzo 2014, Pres. Vidiri, Rel. Marotta) ha accolto il ricorso, richiamando il proprio orientamento secondo cui "il principio di parità di trattamento nell'ambito dei rapporti di lavoro pubblico, sancito dal cit. art. 45, vieta trattamenti individuali migliorativi o peggiorativi rispetto a quelli previsti dal contratto collettivo, ma non costituisce parametro per giudicare delle eventuali differenziazioni operate in quella sede", sicché non possono ritenersi vietati tutti i trattamenti differenziati nei confronti delle singole categorie di lavoratori, ma soltanto quelli in contrasto specifiche previsioni normative, restando escluso il sindacato del giudice sulle scelte compiute dalla contrattazione collettiva.

In altre parole - ha affermato la Corte - il principio di parità nasce storicamente non solo e non tanto dall'esigenza di recuperare uguaglianza (nell'accezione non solidaristica sopra evidenziato) o, meglio, esatta giustizia distributiva, quanto dalla necessità di regolare l'uso d'un potere privato all'interno d'una comunità organizzata.

Questo bisogno si manifesta - cioè - per colmare il vuoto di "contraddittorio" ove manchi istituzionalmente la possibilità che il soggetto in posizione subalterna faccia valere le proprie ragioni contro le scelte discrezionali del soggetto in posizione preminente. Ma ciò non si verifica rispetto alla contrattazione collettiva, in cui le parti operano su un piano tendenzialmente paritario e sufficientemente istituzionalizzato dovendo riconoscersi che i soggetti della contrattazione collettiva hanno il potere ampiamente discrezionale non solo nel valutare la natura, la qualità, l'onerosità dei vari tipi di prestazioni del delineare i livelli di classificazione del personale e nello stabilire i vari tipi di compensi, ma anche nel regolare le varie forme di status normativo ed economico dei lavoratori, eventualmente tenendo presenti le pregresse vicende dei vari rapporti, anche con norme sostanzialmente transitorie.