Demansionamento. Danno patrimoniale.
La Mortificazione inflitta ad un Lavoratore con il Demansionamento costituisce danno patrimoniale. Che deve risarcire. Cassazione Sezione Unite Civili n° 4063 del 22 febbraio 2010. Presidente Vittoria, Relatore Morcavallo.
Umberto A. dipendente del Ministero del Lavoro è stato trasferito, nel novembre del 1999 con inquadramento nella categoria B3, all'ufficio provinciale di Siena dove è stato mantenuto in condizioni mortificanti di totale inattività che gli hanno causato disturbi psicosomatici e l'hanno infine indotto al pensionamento. Egli ha chiesto al Tribunale di Siena la condanna del Ministero al risarcimento del danno professionale, biologico ed esistenziale prodottogli dal licenziamento. Il Tribunale ha condannato l'amministrazione al risarcimento del danno nella misura complessiva di 17.000 euro. In grado d’appello la Corte di Firenze ha escluso che fosse stata data la prova del danno biologico ed ha ridotto l'importo del risarcimento, determinandolo in euro 1000 per il danno professionale ed euro 3000 per quello esistenziale. La riduzione del risarcimento è stata motivata dalla Corte fiorentina con riferimento alla difficile collocabilità dell'impiegato nel nuovo modello organizzativo conseguente al trasferimento agli enti locali delle principali funzioni delle sezioni periferiche. Sia il Ministero che il lavoratore hanno proposto ricorso per cassazione, il ministero ha sostenuto che la Corte di Firenze avrebbe dovuto ritenere non provata l'esistenza del danno da demansionamento; l'impiegato ha censurato la decisione di secondo grado per non avere adeguatamente giustificato la riduzione del risarcimento.
La Suprema Corte (Sezioni Unite Civili n. 4063 del 22 febbraio 2010, Pres. Vittoria, Rel. Morcavallo) ha rigettato il ricorso del Ministero ed ha accolto quello del lavoratore. Per quanto attiene all'esistenza del danno, la Corte ha rilevato che il giudice del merito l'ha correttamente desunta in base ad una valutazione presuntiva, riferendosi alle circostanze concrete dell’operata dequalificazione; ciò è conforme al principio enunciato dalla giurisprudenza di legittimità secondo cui il danno conseguente al demansionamento va dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall'ordinamento, assumendo peraltro precipuo rilievo la prova per presunzioni, per questo dalla complessiva valutazione di precisi elementi dedotti (caratteristiche, durata, gravità, frustrazione professionale) si possa, attraverso un prudente apprezzamento, coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all'esistenza del danno, facendo ricorso, ai sensi dell'art. 115 cod. proc. civ., a quelle nozioni generali derivanti dall'esperienza, delle quali ci si serve nel ragionamento presuntivo e nella valutazione delle prove. Con riguardo, in particolare, al danno non patrimoniale - ha osservato la Corte - esso è stato coerentemente individuato dai giudici di merito, occorrendo rilevare che nella disciplina del rapporto di lavoro, ove numerose disposizioni assicurano una tutela rafforzata alla persona del lavoratore con il riconoscimento di diritti oggetto di tutela costituzionale, il danno non patrimoniale è configurabile ogni qual volta la condotta illecita del datore di lavoro abbia violato, in modo grave, tali diritti: questi, non essendo regolati ex ante da norme di legge, per essere suscettibili di tutela risarcitoria dovranno essere individuati, caso per caso, dal giudice del merito, il quale, senza duplicare il risarcimento (con l'attribuzione di nomi diversi a pregiudizi identici), dovrà discriminare i meri pregiudizi - concretizzatisi in disagi o lesioni d’interessi privi di qualsiasi consistenza e gravità, come tali non risarcibili - dai danni che vanno risarciti. Nella specie - ha affermato la Corte - il danno risarcibile è esattamente identificato negli "aspetti di vissuta e credibile mortificazione derivanti a Umberto A. dalla situazione lavorativa in cui si trovò ad operare", secondo una valutazione che si fonda sull'accertamento del nesso causale tra la condotta illecita datoriale e lo stato di mortificazione del lavoratore. Per quanto concerne la determinazione dell'importo del risarcimento, la Suprema Corte, accogliendo il ricorso del lavoratore, ha osservato che la sentenza impugnata ha escluso il danno biologico sulla "mancanza di elementi processuali significativi, che giustifichino un approfondimento medico-legale del caso, come ritenuto - in maniera condivisibile - dal primo giudice".
Ma l'affermazione - ha osservato la Cassazione - è palesemente incoerente con quanto riferito nella parte narrativa, secondo cui il Tribunale "ha enunciato un profilo di danno biologico, sostanziatosi nelle documentate manifestazioni psicosomatiche e nella sindrome ansiosa correlate alla vicenda lavorativa del ricorrente", e tale incoerenza si risolve, altresì, in una carenza del giudizio di fatto, poiché l’erronea presupposizione (di un accertamento negativo nel precedente grado di giudizio) ha determinato l'omesso esame delle decisive risultanze, puntualmente riportate dal ricorrente, su cui, invece, si era fondato il riconoscimento operato dal primo giudice. La riduzione del danno professionale alla misura "poco più che simbolica" di euro mille e di quello esistenziale alla misura di euro tremila si fonda su valutazioni inadeguate, riferite essenzialmente alla peculiarità della situazione lavorativa di Umberto A. a seguito della sua scelta di non transitare nei ruoli degli enti locali; invero, le rilevate difficoltà organizzative e di collocamento del dipendente sono state definite, nella stessa sentenza, come circostanze limitate temporalmente, in quanto riguardanti una prima fase di transizione, e comunque inidonee a giustificare il demansionamento, tenuto conto che Umberto A. "è stato per circa due anni l'unico dipendente della Direzione provinciale del Lavoro di Siena che ... è rimasto sostanzialmente privo di specifiche mansioni da svolgere (per gli altri colleghi, nel contesto delle vicende riorganizzative dell'ufficio, i disagi conseguenti alla necessità di una ricollocazione lavorativa si sono limitati ad un periodo iniziale)".
D'altra parte - ha rilevato la Corte - la condotta datoriale non poteva che essere valutata nel suo complesso, considerando, in particolare, la persistenza del comportamento lesivo (sia pure in mancanza di intenti di discriminazione o di persecuzione idonei a qualificarlo come mobbing), la lunga durata di reiterata situazioni di disagio professionale e personale, consistente, fra l'altro, nel dover operare "in un locale piccolo e fatiscente, privo di computer", l'inerzia dell'amministrazione rispetto alle accertate richieste del dipendente ("di essere utilizzato nell'Area provvedimenti o nell'Area extracomunitari al fine di poter lavorare in un settore operativo-amministrativo") intese a non compromettere il patrimonio di esperienza e qualificazione professionale, che costituiva un suo primario diritto a prescindere dalla esistenza di specifiche aspettative di progressione di carriera.
La Corte ha rinviato la causa, per nuovo esame, alla Corte d'Appello di Bologna.