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Lavoro Nero. Condannato datore di lavoro.

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE PRIMA PENALE

Sentenza 18.5.2011 n. 25615

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BARDOVAGNI Paolo - Presidente -

Dott. ZAMPETTI Umberto - Consigliere -

Dott. ROMBOLA' Marcello - Consigliere -

Dott. BONITO Francesco - rel. Consigliere -

Dott. PIRACCINI Paola - Consigliere -

ha pronunciato la seguente: sentenza sul ricorso proposto da:

XX avverso la sentenza n. 2859/2009 CORTE APPELLO di BARI, del 01/02/2010;

Visti gli atti, la sentenza e il ricorso;

Udita in PUBBLICA UDIENZA del 18/05/2011 la relazione fatta dal Consigliere Dott. FRANCESCO MARIA SILVIO BONITO;

Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. V. D'Ambrosio, che ha concluso per l'annullamento della sentenza impugnata perché estinto il reato per prescrizione.

Fatto

1. Con sentenza del di 1.02.2010 la Corte di Appello di Bari confermava quella resa dal Tribunale di Trani il 9 febbraio 2009 e con essa la condanna di F.M. alla pena di mesi quattro di arresto ed Euro 28000,00 di ammenda, perché ritenuto colpevole del reato di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 22, comma 12, per aver occupato alle proprie dipendenze, quale amministratore unico della ditta R. Fruit s.r.l., otto lavoratori extracomunitari sprovvisti di permesso di soggiorno.

Accertato in (OMISSIS).

La Corte distrettuale poneva a sostegno della decisione gli esiti degli accertamenti dell'ispettore del lavoro A.C., la testimonianza di tale D.S.M., indicato dalla difesa, e la comunicazione della notizia di reato con relativi allegati, atti questi acquisiti al fascicolo del dibattimento sull'accordo delle parti.

2. Ricorre per cassazione avverso la pronuncia di secondo grado l'imputato, assistito dal suo difensore di fiducia, illustrando un unico ed articolato motivo di doglianza, con il quale denuncia la manifesta illogicità della motivazione impugnata.

Denuncia, in particolare, la difesa ricorrente che avrebbe il giudice di merito erroneamente interpretato il disposto normativo con riferimento alla nozione di datore di lavoro, giacché l'imputato, nell'ambito dei compiti della società, si occupava esclusivamente della gestione del magazzino e della irrigazione dei campi, mentre delle assunzioni era incaricato M.F., il quale ha infatti provveduto alle assunzioni per cui è causa, come dallo stesso confermato in dibattimento unitamente all'altro teste D. S.M..

3. Il ricorso è manifestamente infondato.

3.1 Giova prendere le mosse dal testo normativo il quale, come è noto, per quanto di interesse nel presente giudizio, al comma 10 vigente all'epoca dei fatti (ma l'attuale comma 12, novellato dal D.L. 23 maggio 2008, n. 92, art. 5, comma 1 ter, aggiunto dalla relativa legge di conversione, nulla ha su tale punto specifico modificato nella descrizione della condotta) dispone: "Il datore di lavoro che occupa alle proprie dipendenze lavoratori stranieri privi del permesso di soggiorno previsto dal presente articolo, ovvero il cui permesso sia scaduto, revocato o annullato, è punito.... ". La difesa istante in relazione alla figura di reato come innanzi tipizzata pone la questione giuridica della identificazione della persona che il legislatore ha inteso penalizzare e, pertanto, di cosa debba intendersi a tal fine per "datore di lavoro". La tesi difensiva è nel senso, come innanzi anticipato, che il datore di lavoro punito dalla norma di riferimento sia il soggetto che provvede all'assunzione del lavoratore straniero, in ciò confortato da Cass., Sez. 1^, 22.6.2005 n. 34229 e da Cass., Sez. 1^, 8.7.2008 n. 29494, concordi nell'affermare il principio secondo cui "ai fini della configurabilità del reato previsto dal D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 22, comma 10, - che punisce l'assunzione di cittadini extracomunitari privi di permesso di soggiorno - per "datore di lavoro" deve intendersi colui che procede alla stipulazione del rapporto di lavoro con il cittadino extracomunitario, non assumendo alcuna rilevanza la posizione eventualmente rivestita dal soggetto in una determinata azienda nel cui ambito l'attività lavorativa deve essere svolta".

3.2 L'argomento appena riportato non è coerente con la normativa di riferimento e lo stesso, inoltre, mal interpreta l'insegnamento di questa Corte innanzi riportato.

In primo luogo osserva il Collegio che la norma incriminatrice punisce, prescindendo pertanto dalla fase specifica e precipua dell'assunzione, "chi occupa alle proprie dipendenze", condotta questa la quale, come reso palese dal significato letterale delle parole utilizzate, fa riferimento all'occupazione lavorativa, condotta che può realizzarsi con l'assunzione, ma non soltanto con essa. Ai sensi di legge risponde infatti del reato in esame non soltanto chi assume il lavoratore straniero che si trovi nelle condizioni indicate dalla fattispecie incriminatrice, bensì anche chi, pur non avendo provveduto direttamente ad essa (assunzione), se ne avvalga tenendo alle sue dipendenze, eppertanto occupando più o meno stabilmente, l'assunto.

E tanto ha inteso questa Corte affermare con le pronunce difensivamente richiamate, le quali vanno intese nel senso che la norma penale in esame punisce sia chi procede all'assunzione della manodopera in situazione di illegalità quanto alle condizioni di permanenza nel nostro paese, sia chi tale manodopera comunque occupi alle sue dipendenze giovandosi dell'assunzione personalmente non effettuata.

3.3. Orbene, nel caso di specie il ricorrente, al momento in cui le assunzioni avvennero, rivestiva la carica sociale di amministratore unico della persona giuridica la quale di essi si avvalse, ancorché eseguite le medesime da chi, per conto della società, aveva l'incarico di provvedervi, dappoichè non può esservi dubbio sulla circostanza di fatto che i lavoratori extracomunitari di cui alla contestazione di reato, dopo l'assunzione operata dal dipendente, siano rimasti occupati alle dipendenze della s.r.l. R. Fruit, il cui legale rappresentante era, appunto, l'imputato ricorrente, il quale, in siffatto quadro fattuale e giuridico, legittimamente è stato ritenuto colpevole del reato.

Ne può ritenersi risolutiva l'ulteriore considerazione difensiva che non era l'imputato al corrente, e quindi consapevole, della stipulazione dei contratti di lavoro da parte di M. F., giacché il reato in esame, all'epoca della contestazione, aveva natura contravvenzionale e la condotta era pertanto imputata a titolo di colpa, ravvisabile senza incertezze in capo a chi della società assuntrice della manodopera era il legale rappresentante, incombendo sul medesimo l'onere di impartire le direttive necessarie per assicurare assunzioni legittime e nel rispetto delle leggi vigenti in materia.

4. Il ricorso pertanto, giacché fondato su argomentazioni del tutto incoerenti con il sistema normativo di riferimento, è inammissibile ed alla declaratoria di inammissibilità consegue sia la condanna al pagamento delle spese del procedimento, sia quella al pagamento di una somma in favore della Cassa delle ammende, somma che si stima equo determinare in Euro 1000,00.

P.Q.M.

la Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali ed al versamento della somma di Euro 1000,00 alla Cassa delle ammende.

Così deciso in Roma, il 18 maggio 2011.

Depositato in Cancelleria il 27 giugno 2011